Ho letto con molto piacere e non senza emozione l’articolo, apparso su Alias di sabato 9 maggio, che Alessandra Vanzi ha dedicato a Enrico Filippini. A quell’articolo vorrei aggiungere qualche notizia. Sono stato compagno di Filippini nel Gruppo 63. Non posso dire che fra noi ci fosse una vera e propria amicizia, ma una reciproca simpatia mi pare esistesse. Io ammiravo la sua intelligenza, tanto fulminea quanto lucida, la sua straripante e rumorosa vitalità, la sua ironia allegra e pungente, che non risparmiava nessuno. Sapevo che Enzo Paci, di cui egli era stato allievo, di quella intelligenza si era innamorato ed era pronto a costruire per Filippini una rapida e brillante carriera universitaria.

Ma Filippini era troppo irrequieto e non avrebbe mai potuto accettare una tranquilla vita accademica. I suoi interventi all’interno del Gruppo erano sempre penetranti e risolutivi, dopo che aveva parlato lui restava agli altri ben poco da dire. E sì che il Gruppo accoglieva alcune delle intelligenze migliori fra quelle che poteva vantare la cultura italiana di quel momento: Sanguineti, Eco, Manganelli, Arbasino, Giuliani, Barilli, Angelo Guglielmi…

Nel Gruppo 63 la regola era questa: si discuteva sobri tutta la mattina e l’intero pomeriggio, alla sera c’era la libera uscita: ma, di solito, si finiva di nuovo tutti insieme in un locale suggerito da esperti del luogo, o ospitati da qualche famiglia curiosa di conoscere da vicino quegli strani animali. Fu davvero divertente, durante una di queste serate, ammirare un critico noto per la rigidità delle sue analisi ballare altrettanto rigidamente come se si trattasse di eseguire un esercizio ginnico; o, in un’altra serata, vedere uno studioso fedelissimo alla moglie (assicuravano gli amici) ballare stretto stretto con una bella ragazza recitando i versi di Villon «Le mariage helas…». Non si è mai saputo se la ragazza capisse o non capisse.

Una sera Filippini disse a Sanguineti, di cui era molto amico, «Ho visto le cosce di tua moglie: sono bellissime». Non so naturalmente che cosa Edoardo abbia provato dentro di sé a un così singolare complimento, so che scoppiò a ridere insieme a tutti noi. In un’altra sera ebbi l’occasione di presentare a Filippini mia moglie Silvia. «Come è bella!» esclamò. Poi aggiunse subito: «Non ti credevo capace di tanto». Non solo non mi sentii ferito da quelle parole, ma non potei fare a meno di ammirare divertito l’abilità retorica, per nulla artificiosa, con cui l’amico, mentre elogiava la moglie, liquidava il marito.

Ancora oggi, a distanza di tanti anni, càpita qualche volta che Silvia e io ricordiamo ridendo quell’episodio. Questo era Filippini uomo: per apprezzare le persone e le cose che gli piacevano aveva bisogno di profanarle. Ma la profanazione non aveva fiele: non oso dire che fosse affettuosa, però era sempre allegra, giocosa, cordiale, benevola. E ha ragione Alessandra Vanzi quando scrive che egli era uno di quegli uomini «che mangiano la vita con più fame di altri», con «un’insopprimibile voracità vitale».

Svizzero di Locarno, Filippini parlava perfettamente italiano e tedesco. Avendo studiato in diverse Università, italiane e straniere, aveva una cultura assai vasta, ma era principalmente un fenomenologo. Le sue traduzioni sono state fondamentali per far conoscere in Italia autori come Husserl e Benjamin.

Pur conoscendo bene il tedesco, non era facile tradurre in italiano un importantissimo ma assai complesso libro di filosofia quale è certamente Ideen zu einer reinen Phänomenologie di Husserl. Filippini ci è riuscito perfettamente e basterebbe questa impresa a renderlo un benemerito della ricerca filosofica.

Filosofia e letteratura non erano in lui separate, si congiungevano spesso armonicamente, cosicché Sanguineti, in un saggio pubblicato in Ideologia e linguaggio, poteva correttamente riconoscere che nel racconto Settembre di Filippini la formazione fenomenologica dell’autore aveva notevolmente influenzato la stessa costruzione del testo. Accanto alla narrativa, era il teatro a interessare Filippini.

Al terzo convegno del Gruppo 63, che si svolse a Palermo nel settembre del 1965, Carlo Quartucci mise in scena Gioco con la scimmia di Filippini. Lo spettacolo era molto interessante, ma fu turbato da alcune contestazioni. Furio Colombo gridò nel buio: «Stronzi mafiosi!», e le contestazioni cessarono. Gioco con la scimmia, tacendo di altro, per l’originalità della scrittura merita di essere di nuovo rappresentato o almeno riletto. Né si tratta solo di questo. Forse presso la figlia, signora Concita Filippini, esistono dei materiali inediti degni di essere esaminati e eventualmente pubblicati da qualche giovane studioso animato da buona volontà.

Scioltosi il Gruppo 63, persi di vista Filippini, che intanto era diventato uno dei più vivaci redattori del quotidiano La Repubblica.

Un giorno, a Roma, incontrai casualmente Filippini. In quel periodo facevo parte della giuria del Premio Riccione per il teatro. Chiesi a Enrico (come molti altri, appresi solo in seguito che gli intimi lo chiamavano Nani) se avesse qualcosa di pronto per il teatro. Mi rispose di sì. Gli dissi: «Manda il tuo testo a Riccione, tu hai ottime probabilità di vincere anche senza il mio aiuto». Il commiato fu rapido e cordiale come era stato l’incontro. Non l’ho più rivisto. Nessuna opera teatrale di Filippini è mai giunta al Premio Riccione. Qualche tempo dopo la sua morte, ebbi da Sanguineti il racconto di una drammatica telefonata con la quale Filippini comunicava all’amico di avere un cancro allo stadio terminale.

Ho dedicato a Filippini una pagina del mio recente libro Il critico stratega. Luciano Anceschi, i Novissimi, il Gruppo 63 (Mimesis edizioni). È solo un ricordo, ma di rado ho scritto una pagina altrettanto volentieri.