Nella storia del cinema sono molteplici gli autori che hanno fatto crescere davanti alla macchina da presa, film dopo film, con intervalli temporali, uomini e donne che sono diventati personaggi imprescindibili delle loro filmografie. Registi la cui opera ha trovato un confronto ampio con il pubblico e altri rimasti «relegati» nell’ambito più ristretto degli spazi festivalieri.

NEL PRIMO caso non si può non pensare al rapporto tra François Truffaut e Jean-Pierre Léaud, a quello tra Richard Linklater e Ellar Coltrane (dagli 8 ai 20 anni), e tutto il cast, seguito per dodici anni, riunito per un periodo una volta all’anno, in Boyhood, a quello tra Tsai Ming-liang e Lee Kang-sheng… Nel secondo caso si pensi alla cineasta ceca Helena Trestíková che ha documentato la vita di un uomo da quando aveva 18 anni (prima, dal 1989 al 2008, in René e poi, per altri tredici anni, fino al 2021, in The Prisoner of Freedom), a Tonino De Bernardi la cui filmografia si inscrive in un infinito «cinema di famiglia», a Marco Bellocchio che ha filmato fin dal suo nascere la figlia Elena (dal 1997, nel corto Elena, a oggi, in Marx può aspettare).
E a Jay Rosenblatt che con How Do You Measure a Year? (nel concorso internazionale del festival Filmmaker di Milano) ha realizzato un capolavoro che, in meno di mezz’ora, documenta, anno dopo anno, il crescere della figlia Ella, da quando aveva due anni fino a quando ne ha compiuti diciotto. Semplicemente, ovvero con una appassionata e maniacale precisione, il padre regista l’ha filmata su un divano ponendole le stesse domande. Rosenblatt lo spiega bene nelle scritte poste all’inizio di questo film familiare e saggio sul passare del tempo e sull’evoluzione fisica e psicologica di una persona. Ha messo in scena un «rituale di compleanno», ma quel materiale filmato lo stesso giorno di ogni anno e nello stesso set casalingo, che diventa un set-mondo, Rosenblatt lo ha tenuto segreto a se stesso: «Ho aspettato 17 anni per guardare quello che avevamo filmato». «Avevamo», perché, nel segno, nel pensiero, nella pratica del più grande cineasta di tutti i tempi, Stan Brakhage, le persone che ti stanno accanto diventano loro stesse «autrici» del film e del percorso di vita che si sta facendo.

SI TRATTA di un gesto teorico immenso che porta l’autore a farsi egli stesso spettatore, a scoprire, e montare, quanto filmato solo a distanza di tempo, vivendo anch’egli l’esperienza di una prima volta, della prima volta di una visione e di una condivisione di essa. C’è la voce di Rosenblatt, e ogni tanto il suo corpo che entra nell’inquadratura. Ci sono le mutazioni del corpo della figlia, da bambina a adolescente a giovane donna, i suoi pensieri, le risposte a volte sorprendenti, e il ricorrere di quella frase, detta e cantata, che dà il titolo al film: «How Do You Measure a Year?». Quante variazioni – nei toni di voce, nei gesti, nelle espressioni di una bambina che cresce – contengono quelle parole, quanti scarti semantici, quante possibilità e riflessioni, ancora una volta avendo in mente le infinite sfumature sensoriali indagate da Brakhage? Cosa significa «un anno»? Come si può «misurarlo»? Rosenblatt pone queste, e molte altre domande, nel suo piccolo e monumentale film. Il tempo è il battito di How Do You Measure a Year?, così come lo è il fuori campo, quello che non si vede ma si percepisce in ogni anfratto.
Rosenblatt, non facendolo fisicamente, «allarga» continuamente lo spazio del visibile, espande i bordi dell’inquadratura, sbriciola i contorni e fa entrare nell’immagine il respiro, le voci, i palpiti, le emozioni che stanno oltre i bordi. Quelle di un padre che dialoga con la figlia rendendo invisibile l’occhio di vetro dell’obiettivo, facendo scomparire la macchina da presa, il supporto tecnico, manifestando il miracolo che il cinema, nella sua essenza più pura, può produrre.