La storia del nostro passato più recente è una presenza/assenza nel dibattito culturale e politico del nostro paese. Ignorata e negletta nella scuola, fino a essere per un periodo esclusa anche dalle tracce della prova scritta della maturità, oppure usata in maniera ridicola con citazioni strampalate che procurerebbero sonore bocciature nelle aule scolastiche. Utilizzata, invece a volte, come «arma contundente» in commissioni parlamentari o per indire l’ennesima giornata della memoria, confermando quella riduzione della riflessione storiografica al «paradigma vittimario» di cui molti storici hanno parlato da tempo.

IN QUESTA SITUAZIONE i numerosi volumi pubblicati su differenti aspetti della storia dell’Italia repubblicana hanno una loro circolazione parallela che non incide sulla formazione di una conoscenza storica diffusa. Occorre ritornare all’inizio degli anni Novanta per trovare lavori di storici che ebbero un impatto significativo sul dibattito culturale e politico del nostro paese; al libro di Claudio Pavone sulla Resistenza oppure a una serie di volumi sulla storia dell’Italia della prima Repubblica, come quelli di Paul Ginsborg, Silvio Lanaro, Pietro Scoppola.

OGGI QUESTO RUOLO di costruzione di una memoria collettiva, concetto ben differente dall’orwelliana «memoria condivisa», lo svolgono alcuni giornalisti e le trasmissioni di nicchia della Rai, come «Passato e presente» di Paolo Mieli o la programmazione del canale Rai Storia. In questo contesto l’editore Laterza ha appena pubblicato due volumi, molto differenti fra di loro eppure emblematici delle difficoltà da parte degli studiosi di storia nell’incidere sul «discorso pubblico» riguardo il nostro passato.

Il primo di John Foot, L’Italia e le sue storie. 1945-2019 (pp. 417, euro 25), il secondo di Simona Colarizi, Un paese in movimento. L’Italia negli anni Sessanta e Settanta (pp. 162, euro 15). Il lavoro di Foot, storico britannico che ha vissuto e insegnato per molti anni in Italia, si rivolge a un pubblico di non addetti ai lavori con un’operazione brillante e una prosa scorrevole. Il lungo periodo che dall’immediato dopoguerra arriva fino a oggi viene ripercorso con l’ausilio di «storie, processi, eventi sportivi e biografie per dipingere il quadro di un paese». Il volume di Colarizi, invece, oltre a essere centrato su due decenni «caldi» per la riflessione storiografica nazionale, ha una struttura molto più classica e si rivolge alla comunità degli studiosi, offrendo una lettura di sintesi spinta dal riaccendersi del dibattito sugli anni Settanta «frutto di approfonditi lavori di ricerca specie da parte degli storici della generazione più giovane».

NONOSTANTE LE RISERVE legate al fatto che si possano utilizzare categorie storiografiche anche per arrivare alla cronaca dei giorni nostri, alla fine della lettura del volume di Simona Colarizi, il giudizio si è completamente ribaltato. Il libro di John Foot, oltre che una lettura piacevole, è capace di cogliere e descrivere, proprio grazie al carattere emblematico di alcune vicende, i passaggi chiave dell’Italia repubblicana. A volte lo sguardo dello «straniero» è leggermente straniante ma molto significativo, offrendoci letture e interpretazioni che lo «sguardo interno» fatica a cogliere perdendosi in dettagli.

ANCHE SUGLI ANNI più vicini, il solo rimettere in ordine cronologico alcune vicende ha un effetto illuminante. Basti pensare, per esempio, alla vicenda delle migrazioni dei cosiddetti extracomunitari verso il nostro paese, iniziata nei primi anni Novanta con «l’invasione» degli albanesi e poi con i primi gravissimi episodi di razzismo in alcune città, come l’assassinio di Abdellah Doumi a Torino nel 1997, e non certo con Minniti e Salvini. In generale l’autore rivendica la scelta di un libro privo «di un tema portante», anche se alla fine del suo lavoro riconosce un filo conduttore nel «senso costante di crisi e trasformazione che permea la storia d’Italia» che nel testo assume spesso una sorta di nostalgia per un paese che oggi «è irriconoscibile rispetto al paese uscito dalla guerra del 1945». Meno male, si potrebbe aggiungere.

Il volume di Colarizi, invece, sembra un’occasione persa di aggiungere un altro tassello interessante alla riflessione sugli anni che alcuni studiosi definiscono «la stagione dei movimenti». L’autrice muove, giustamente, da un approccio contrario a quello di Foot, il rifiuto di leggere questi decenni utilizzando prevalentemente «la categoria della crisi». I due decenni in questione sono quelli di un doppio cambiamento epocale del paese, che diviene pienamente industriale prima, per uscire poi rapidamente da questa fase già alla fine degli anni Settanta. Il tutto accompagnato da un lungo ciclo di protesta che «vede scendere nelle piazze almeno tre generazioni di giovani dal 1960 al 1976».

CIÒ CHE NON CONVINCE di questa analisi è proprio la lettura dei protagonisti del lungo ciclo di protesta. Tutto il testo è permeato da una costante condanna del radicalismo dei vari movimenti, considerato un orpello ideologico, oltre che criminale, nonostante il quale si afferma un cambiamento epocale del paese frutto, praticamente esclusivo, all’inizio del ciclo dei governi di centrosinistra e poi da quelle «richieste di rinnovamento, epurate dall’estremismo giovanile», rappresentate dal Partito radicale. Grandi protagonisti del volume sono proprio i radicali, che inaugurano il capitolo che tratta il periodo 1969-1976, dominando anche il paragrafo dedicato al movimento femminista.

D’ALTRONDE se si scorre l’indice dei nomi ci si rende conto che Marco Pannella è il secondo personaggio più citato, davanti a Berlinguer e dietro soltanto a Moro (per l’ovvio impatto del rapimento e assassinio). Con questa chiave di lettura, al centro delle grandi trasformazioni del paese e delle importanti riforme ci sono soprattutto i diritti civili e poca attenzione nei confronti della più ampia e secca redistribuzione sociale di reddito, di poteri e di diritti mai avvenuta nel corso della storia repubblicana che fu il risultato delle lotte operaie del periodo 1969-1973.