Dal 2008, la crisi economica mondiale ha interrotto la tendenza a costruire, senza interruzione, nuove unità abitative in modo del tutto indipendente dalle necessità effettive. Si trattava di normale logica capitalistica: una macchina senza testa che «produce» senza soluzione di continuità, al solo scopo di far crescere la «ricchezza», concentrata nelle mani di sempre meno individui.
Uomini che avevano vissuto per tutta la vita, affittuari, piccoli negozi, comunità di artisti, lavoratori, poveri, all’improvviso sparivano per far posto ai cosiddetti «gentrificatori». La città perdeva così la sua anima. Certo, si possono ancora trovare antichi quartieri come Brooklyn, il Bronx, il Queens, un tempo popolati da irlandesi, ebrei e italiani, me è difficile riconoscerne oggi le antiche abitudini, soppiantate da nuove ondate migratorie di cinesi, russi, latini e pakistani.
Gli artisti di SoHo, scena controculturale dell’East Village e l’area del rock indipendente a Williamsburg, si sono trasferiti in quartieri più economici. Harlem è stata invece valorizzata e integrata, tuttavia il contatto gomito a gomito di ricchi, poveri e ceto medio, è stato oggetto di uno tsunami che ha cancellato le antiche abitudini.

Zone di immigrazione

L’idea della creazione urbana di qualità costruita per i ricchi, secondo la quale i benefici si diffondono a cascata anche ai poveri è miseramente fallita. Di questi e molti altri passaggi si occupa il bel saggio di Sharon Zukin, L’altra New York. Alla ricerca della metropoli autentica (Il Mulino, trad. di F. Diavolio, pp. 280, euro 19,55), tuttavia la massa di informazioni contenuta nel volume e una visione in prima persona – l’autrice vive e ama New York – ne fa più un reportage che uno studio critico.
«All’inizio del XXI secolo la città di New York ha perduto la sua anima – sostiene l’autrice – C’è chi dubita che la città ne abbia mai posseduta una, dal momento che New York è sempre cresciuta facendo a pezzi il suo passato, demolendo vecchi quartieri e costruendone di nuovi al loro posto, solitamente per una sfacciata ricerca del profitto». Il confronto con Pechino, Shanghai e altre città cinesi che stanno trasformando l’immagine della povertà in uno «splendore» che produce nuove e tremende schiavitù non è certo consolatorio, per uno sguardo attento al destino delle masse dei lavoratori. Anche Liverpool e Bilbao hanno demolito le zone antistanti il porto, in abbandono, e hanno trasformato darsene scalcinate e depositi in musei d’arte contemporanea.
A Londra, Parigi e New York, artisti e gentrificatori si insediano in aree che sono state di immigrazione. Vengono ricordati autori come Walter Benjamin e Jean Baudrillard i quali, in tempi diversi, hanno sostenuto che l’esperienza, con l’avvento della modernità e delle nuove tecnologie, è sempre più insidiata dalle apparenze, dalla cultura di consumo. Anche sull’autenticità si è discusso, sulla possibilità concreta di conservare i luoghi delle origini, preservando edifici e distretti storici, incoraggiando lo sviluppo di piccole boutique e caffè, ed etichettando i quartieri in termini di identità culturali distintive. Ma la stessa autenticità è categoria ambigua: può diventare uno strumento di potere e simbolo di ricchezza.
A New York manca «non soltanto l’autorità delle cose permanenti, ma anche quella delle cose durevoli», con queste parole Henry James toccava corde che risuonano nel presente: dall’ostilità per l’iperedificazione al desiderio di frenare un cambiamento troppo rapido, al disgusto per un’estetica della standardizzazione destinata a generare città e quartieri tutti simili tra loro. Come i parigini, che a metà Ottocento deploravano la ricostruzione della città sulle sue origini medievali, operata dal barone Haussmann, James dipinge con rimpianto il paesaggio della memoria e dei sentimenti che era stato distrutto da una nuova ondata edilizia.
Nonostante tutti i progressi sociali ed economici da allora ad oggi, lo spirito bohémien del XIX secolo tuttora vive nelle nuove aree hipster e nei quartieri gentrificati. Dallo Spleen de Paris di Baudelaire al più recente spettacolo di Avantgarde Music, i bassifondi osteggiati dalle classi medie continuano ad affascinare artisti e scrittori per la loro riserva di fascino e pericolosità.
L’altra New York si rivela a fine lettura un libro senz’altro utile e informato sulla trasformazione delle «città globali», con i suoi continui riferimenti ad autori, scrittori e saggisti che in passato ne avevano colto i primi segnali. Il suo limite più evidente tuttavia consiste nell’assenza di una lettura più radicalmente politica dei mutamenti descritti. Manca una prospettiva realmente «altra», nonostante l’intenzione del titolo. L’impostazione permane all’interno di una critica convenzionale alle logiche capitalistiche e al consumismo.

Modello del consumo

Su questo si sono già versati fiumi d’inchiostro. Mancano le schiere di singolarità in movimento che marciano alla conquista di un’altra metropoli. Macchine produttive di enunciazioni resistenti e di altre qualità dell’essere, che intonino nuove «vie dei canti», annuncino liberazioni del tempo proponendo con il proprio corpo strategie di resistenza alla disciplina spazio/temporale implicita nel modello di produzione e consumo dominante.
Moltitudini che assumano su di sé l’amore per la lentezza, l’arte di vedere, il rispetto della Terra. Che prendano le distanze dalla dittatura di un tempo votato esclusivamente alla logica produttiva e alla ragione strumentale. Non una nostalgica contemplazione del passato ma una capacità di innervarsi nei conflitti di una metropoli che si presenta oggi più che mai come un potente motore di produzione linguistico/semantico di forme di vita.