Lo si legge sui giornali, lo si sente citato in televisione, è presente sul web ma molti non sanno cosa sia. Eppure è una gigantesca striscia geografica e antropica, nella quale si giocano una parte rilevante dei destini del mondo. Si tratta del Sahel, dall’arabo sahil, che indica non solo linguisticamente ma soprattutto sul piano del concetto quello che è il «confine», la «sponda», il limite tra il gigantesco, mitografico, irresistibile e insopportabile deserto del Sahara, ossia la sabbia immensa e tediosa, ed il resto del Continente «nero» (per usare la semantica antropologica di antico stampo), la terra verde o comunque battuta.

SONO OTTOMILACINQUECENTO chilometri di lunghezza per una striscia che va dall’Atlantico all’Oceano Indiano, comprendendovi sei milioni di chilometri quadrati in dodici Stati. Per capirci, la linea di divisione tra il Maghreb, ovvero quella parte di Africa ex-coloniale che noi europei meglio conosciamo, e ciò che per la nostra stessa esperienza sensoriale, prima ancora che cognitiva, è l’Africa della savana, delle pianure, delle foreste. Marco Aime e Andrea de Georgio, una coppia che contamina felicemente ricerca accademica ad impegno pubblicistico, con il loro Il grande gioco del Sahel. Dalle carovane di sale ai Boeing di cocaina (Bollati Boringhieri, pp. 153, euro 18) ci restituiscono un fermo immagine del presente di quell’area, una «cicatrice sul mondo», spiegandoci il perché della sua rilevanza strategica anche e soprattutto per i nostri destini.

Prima di tutto varrà la pena di parlare della struttura del libro, e subito dopo dei suoi contenuti. L’aspetto maggiormente apprezzabile, nel primo caso, è l’estrema capacità di offrire una sintesi culturale, storica, geopolitica, ecologica, antropologica e sociologica senza obbligare il lettore ad affrontare un trattato di gigantesche e polverose proporzioni. Gli autori sono consapevoli del contesto in cui il loro studio ricade, quello di un’Italia per buona parte ancora inconsapevole di ciò che si trova oltre quella che un tempo era la «quarta sponda» di un impero caduco, quello savoiardo-mussoliniano. La sostanziale ignoranza del quadro africano, tenuto comunque sotto controllo dalla Farnesina, non è solo il prodotto dell’inconsapevolezza del retaggio coloniale nazionale ma anche del provincialismo nel quale il nostro paese opera, come se ciò che accade oltre la costa mediterranea non fosse questione destinata a ricadere sul profilo dell’Italia. E qui si va ai contenuti. In cinque capitoli (terra, acqua, libro, frontiera e città) Aime e De Georgio affrontano il quadro presente così come la storia, e con essa la mutevole dimensione geoantropica, destinata ad influenzare sia le medesime terre del Sahel che gli equilibri mediterranei e mediorientali. E non solo, trovando in campo attori pervicaci, di antica presenza come la Francia, e di recente penetrazione, a partire dalla Cina.

DA QUESTO PUNTO DI VISTA, la somma dei processi socio-demografici, emigratori, politici, ecologici aiuta a comprendere come in questo caso, al pari di altri, non si possa definire una complessa mesoregione sulla scorta di un unico indice. Terre antiche con popolazioni giovani sono una vera e propria sfida per nazioni ancora egemoni ma oramai senili quali quelle che in più di duecento anni, attraverso la rivoluzione industriale, hanno costruito il loro declinate predominio sul mondo intero. Il Sahel, da questo punto di vista, non è solo uno spazio a sé ma un terreno sul quale, nella diversità degli attori in campo, si misura un processo tipico del nostro tempo, ovvero «una militarizzazione che stratifica i conflitti intensificando la pressione sulle popolazioni locali. Milioni di persone tenute in scacco dalle angherie di eserciti regolari e gruppi armati, milizie etniche e signori della guerra, narcomafie e jihadisti, politici corrotti e uomini d’affari senza scrupoli».

NON SI TRATTA dell’indice di un fallimento bensì del backstage di un sistema di interessi che coinvolge una pluralità di soggetti, a livello planetario. Poiché nel Sahel ci sono risorse e opportunità irripetibili come anche disastri e tragedie irriferibili. Soprattutto, vivono collettività con una lunghissima storia. Gli autori non indulgono nella retorica di certo anticolonialismo d’antan. Sono scevri da una visione che, a sua volta, rivela – tanto più oggi – tutti i suoi limiti. Poiché non spiega nulla, giudicando invece tutti. Il confronto, quindi, non è tra «buoni» e «cattivi» ma tra i non pochi colpevoli, scaltramente impegnati a occultare i loro interessi, e le popolazioni in ostaggio. Paradossalmente, verrebbe quasi da dire, noi europei tra queste ultime. Il volume è quindi una sorta di handbook su quella ampia e vivace striscia di territori del pianeta. Non un repertorio di ciò che fu ma, prima di tutto, uno spaccato dello scenario che potrebbe essere. Per noi, prima di tutto. Insieme a «loro».