Si sta risvegliando l’interesse per Elvira Notari, sceneggiatrice e regista del cinema muto napoletano, scoperta sul finire degli anni Settanta dalla critica femminista quale prima donna dietro la macchina da presa nella storia del cinema italiano (e non solo). In tempi più recenti, il libro La film di Elvira (film, traduzione di pellicola, si declinava al femminile nei primi anni del cinema muto) di Paolo Speranza e Licio Esposito nel 2016 è stato il primo passo di una riscoperta storicamente accurata del personaggio al quale ha fatto seguito l’innovativo convegno-retrospettiva Transito, svoltosi a Francoforte, che ha indagato il cinema popolare napoletano con filologici accompagnamenti musicali dal vivo e uno studio culturalmente aggiornato del lavoro di questa donna. Sono anche usciti ben due romanzi su di lei, rispettivamente di Emanuele Coen (La figlia del Vesuvio. La donna che ha inventato il cinema, Sem, 2023) e di Flavia Amabile (Elvira, Einaudi, 2022).

Attiva dagli anni Dieci del XX secolo, per un ventennio con la sua Dora film Elvira gestisce insieme con la sua famiglia una delle «case di produzione» del cinema popolare partenopeo: il marito Nicola a fare il cameraman e un po’ il manager, e il figlio Eduardo come attore (le figlie Dora e Maria, invece non le fa lavorare nel cinema, se non nel senso di chiamare Dora la casa di produzione). Ha un diploma di maestra e viene da una famiglia piccolo-borghese, ama leggere e a quel tempo rivaleggia con Matilde Serao nello spazio della comunicazione popolare, particolarmente vivace a Napoli.
Durante la guerra di Libia Elvira avvia la regia di film di finzione e tra le sue prime pellicole c’è La guerra italoturca degli scugnizzi napoletani, in cui due bande di ragazzini simulano il conflitto prendendosi a sassate: riprese dal vero ai Ponti Rossi, dopo che aveva assistito a uno scontro tra bande rivali. Letteratura popolare tratta da Mastriani e Carolina Invernizio e dai racconti a puntate pubblicati dal giornale Roma costituiscono la sua ispirazione, in storie talvolta trucUlente con nani e lampionai omicidi, infanticidi, femminicidi, zumpate (lo scontro al coltello di due rivali, di solito per gelosia) ambientati nei bassi e nei vicoli, a presentare un’immagine della città plebea, ben lontana dalla metropoli del Grand Tour. Emozioni, passioni, dramma e la musica suonata dal vivo creano la sceneggiata cinematografica prima ancora che nascesse in teatro. Notari utilizzava infatti per le trame dei suoi film canzoni «di giacca» e/o passionali, che raccontavano vicende di miseria e marginalità, con il guappo detto ‘o malamente e l’nfama, la donna dai facili amori, vittima di coltellate fatali: personaggi bell’e pronti per storie che appassionavano il pubblico, non solo popolare e non solo al Sud. Ma in fondo era un cinema non tanto diverso nel racconto dai corti americani e dai feuilleton francesi; l’esotismo napoletano e la musica facevano la differenza.

La canzone popolare napoletana si presta a questo gioco col cinema sia perché ha già un suo pubblico e nel formato drammatico fornisce dei racconti codificati, ma anche perché le proiezioni cinematografiche avvenivano spesso nei teatri di varietà o nei café-chantant dove erano già presenti un’orchestrina e qualche cantante. Elvira Notari va oltre, perché non fornisce mai i suoi film di cue sheets, di partiture pre-confezionate da eseguire dal vivo, ma sceglie di far cantare sotto il palco la canzone del film da interpreti di vaglia: non è solo la proiezione di una pellicola -momento ripetibile- ma la performance live, un’esperienza unica e immersiva. Teatrale, musicale, ispirato alla letteratura popolare, quindi intermediale il cinema di Elvira Notari è anche interclassista, in quanto dotato della trasversalità socio-culturale tipica della napoletanità, in bilico tra innovazione e tradizioni dello spettacolo partenopeo e tra donne che vogliono la loro libertà e femminicidi crudeli a chiudere le loro vicende, scontri morali non moralistici.

E di Elvira Notari si è riparlato nel foyer del Teatro San Ferdinando a Napoli, in occasione dello spettacolo Cinema muto con Iaia Forte e Andrea Renzi, regia di Gianfranco Pannone, che hanno dibattuto sul personaggio. Nello spettacolo teatrale Andrea Renzi interpreta il censore che taglia i film di Elvira con la scusa dell’uso del dialetto nei titoli e nelle didascalie, in realtà per motivi di classe e ideologia, contrari al cinema popolare napoletano, provocandone, a metà degli anni Venti, la fine, prima ancora che col sonoro il Duce proclamasse il cinema «l’arma più forte» e accentrasse la produzione a Roma.

Questo incontro ha offerto l’occasione per riparlare del libro La film di Elvira, di ragionare sulle contraddizioni di una donna che fa impresa da sola e mette il marito a fare il tecnico, chiamata «la marescialla» per il suo piglio autorevole, ma che poi sul set preparava gli spaghetti per tutti. In questi anni di femminicidi ricorrenti fa male comunque vedere come Notari abbia raccontato più di cento anni fa, le ragioni delle sue eroine-vittime, che cercavano di affermare la propria individualità se non il diritto alla libertà, e per questo finivano accoltellate.

Mentre si vanno preparando vari progetti (documentari, fiction tv, libri ecc.) per i 150 anni dalla nascita della regista, bisognerebbe tirare i fili di un discorso più articolato sul personaggio e più in generale rispetto alla cultura popolare napoletana coi suoi eccessi di violenza e passione, in un cinema che raccontava la povera gente, mostrando gli «stracci» meridionali che lo stato unitario allora (?) non voleva vedere, anche per via dei sensi di colpa per aver peggiorato le condizioni delle classi più povere. E si spera poi che i nuovi lavori non riguardino l’eterno dibattito sul femminismo o meno della regista e che si smetta parlare di neo-realismo ante litteram: si tratta di puro verismo meridionale, quello di Verga e del teatro di Giovanni Grasso. Dato che dei suoi sessanta film sono consultabili 3 pellicole e qualche frammento, quello che bisognerebbe fare è cercare altri film, soprattutto all’estero, visto che il suo cinema era così popolare presso le comunità degli emigrati, tenendo conto però che spesso i titoli cambiavano nel moscacieca tra censura e esportazione, e che non andavano solo a New York ma anche in Sudamerica. Bisogna indagare ancora sui suoi peculiari metodi di produzione, tra artigianato e famiglia, ma con l’intuizione di sfruttare i media esistenti (canzone, stampa, editoria) per creare un particolare mondo visivo, sonoro ed emotivo; e soprattutto studiare la sua rete di distribuzione negli Stati Uniti, più penetrante e nuova della distribuzione internazionale del cinema torinese, considerato allora il top di gamma.