Housing for Everyone: è questo il tema, centrale nel dibattito attuale, del World Architecture Festival (giunto alla sua nona edizione) che ha fatto il suo ritorno in Europa, a Berlino. La sede scelta, l’Arena Berlin, un tempo deposito per gli autobus della vecchia Berlino Est, si trova nel cuore di un’area protagonista delle trasformazioni della capitale tedesca, nel quartiere di Kreuzberg, a due passi dal muro e a pochi metri dagli enormi murales che lo street artist italiano Blu ha cancellato affinché non facessero da sfondo al nuovo sviluppo edilizio da parte della società immobiliare che prometteva di «valorizzarli».
Secondo le parole del direttore e fondatore Paul Finch, «il tema del Festival è stato scelto a partire dalla location, non viceversa», pensando proprio alla particolare condizione di Berlino, dove alla domanda di alloggi low-cost o d’emergenza si somma una richiesta crescente di residenze di lusso. «Abbiamo affrontato il problema base dell’architettura, la casa – ha spiegato Finch – perché gli architetti lavorano a ogni possibile situazione legata all’housing, da quello della densità a quello della sostenibilità, fino al problema della sicurezza e della protezione».

Berlino nacque come insediamento militare e ci è voluto moltissimo tempo perché diventasse una città. La sua espansione si deve al venir meno dell’esigenza di difesa. «Rappresenta un caso più raro che unico sia in Europa che in Germania», ha continuato Finch, che è anche il direttore editoriale di The Architectural Review. «Si tratta di una città che ha sempre accolto i rifugiati, dal momento che miglioravano la situazione economica. È anche una metropoli sottopopolata, in parte a causa della guerra. Dopo la caduta del muro, Berlino si è espansa, ma non come altre città europee, e i prezzi degli affitti sono rimasti bassi».
Il ritorno in Europa ha reso tuttavia automatico il legame di questa rassegna con la Biennale di Venezia. «Il tema di quest’anno era molto accattivante e il curatore Alejandro Aravena è un architetto interessante. Ma la domanda è un’altra: come si torna indietro rispetto al tema fissato? Gli architetti non possono risolvere il problema dell’housing. Nemmeno gli investitori: loro edificano case e le vendono. E cosa si fa per chi non può comprarle? Questa è la questione: trovare il bilanciamento fra intervento pubblico e mercato».

Gli architetti, oggi, sono orientati maggiormente verso la ricerca di investitori privati. È quanto conferma Sadie Morgan, direttrice di drMM, uno dei più famosi studi londinesi e membro della giuria del Waf per la categoria housing. «I progetti presentati al concorso hanno dato grande rilevanza al tema della comunità, focalizzandosi sugli spazi di socialità. Gli architetti tendono a dare risposte strutturali: è necessario ordinare gli spazi in modo da renderli disponibili per la comunità, nonostante non si tratti di grandi progetti a committenza pubblica. Il pubblico accusa la crisi più del privato, e deve semmai aiutare il privato a fornire soluzioni adeguate». Come? «È un processo che nel Regno Unito è già in atto: le autorità locali stanno cedendo la terra agli sviluppatori, in cambio di alloggi a prezzi accessibili. Si tratta di un vantaggio per entrambe le parti. I costruttori, da parte loro, hanno così la possibilità di effettuare investimenti a lungo termine».
Andare incontro alle esigenze del mercato rischia però di cancellare o rendere retorica la questione dell’etica. «Gli architetti non hanno una preparazione specifica, e non hanno dunque una responsabilità sulle questioni etiche – ha affermato ancora Finch – Da loro si deve pretendere che abbiano idee, solo questo. L’aspetto etico riguarda il progetto che presentano, devono chiedersi se è difendibile, se serve a creare un buono o un brutto ambiente. Non si può pensare che sia compito degli architetti risolvere la crisi dell’housing».

Al contrario, per Jo Noero, architetto fra i più importanti del Sudafrica e membro della giuria principale del Waf, «è necessario comprendere a quale scala si lavora. Il problema normale di un architetto è come fare un progetto di housing e poi trovare un modo per costruirlo. È invece opportuno un cambio di mentalità. La scala più propria dell’architettura è quella intermedia: al di sotto vi è l’attivismo, al di sopra i tentativi di influenzare l’agenda politica. Noi, per esempio, lavoriamo facendo anche cose piccolissime, cercando di coinvolgere le persone».

Urbanxchanger, uno dei suoi progetti più celebri, è un sistema che permetterà agli abitanti degli slums di Cape Town di migliorare le condizioni dei propri alloggi elevandoli in altezza grazie a un sistema di piattaforme. Ciò consente di aumentare la densità dell’abitato e di introdurvi servizi essenziali, senza demolizioni né ricollocamenti in nuove abitazioni. Un sistema tanto semplice che si intende applicare anche a un contesto urbano differente come quello di Berlino, con il principio che il settore pubblico si prenda cura della nuova infrastrutturazione, mentre all’interno di questa gli abitanti auto-costruiscano la loro casa.
«Gli architetti hanno un grande potere – ha aggiunto Noero – che consiste in quel sapere ’segreto’ che solo loro possiedono: devono far sentire la loro voce, possibilmente senza intermediari. «L’architettura è collassata in un’espressione di consumismo esasperato, e questo mi rattrista. Tra i progetti del Festival ci sono fantastiche creazioni di forme accompagnate da una mancanza di visione critica sulle conseguenze che gli edifici avranno. Può suonare folle ma, per dirla in una battuta, sono contento della vittoria di Trump. Sapete perché? Perché il mondo ha bisogno di uno shock per uscire da questa situazione. Al Waf, tra dieci anni, vedremo lavori diversi da quelli di oggi».

Ma il capitale ha mostrato, anche qui al Waf, il suo vero volto. La conferenza di Patrick Schumacher, attuale direttore dello studio Zaha Hadid, è stata l’enunciazione di un manifesto ultraliberista che ripone nella sola forza del mercato ogni fiducia per la soluzione dei problemi dell’housing. «Le parti pregiate della città – ha detto Schumacher – devono essere lasciate a disposizione delle persone più produttive, per generare un valore di cui tutta la società può beneficiare». Si dovrebbe poter costruire anche a Hyde Park, «privatizzare tutte le strade, le piazze, gli spazi pubblici e i parchi, e possibilmente interi distretti urbani». Un discorso provocatorio, che ha suscitato reazioni avverse del pubblico, un modo spregiudicato di spostare verso l’alto l’asticella del pudore democratico.

Il Capitale si propone ancora come detentore delle risposte a ogni istanza del presente. Stavolta pretende di risolvere temi come sostenibilità, crisi economica, conflitto sociale, con una formula vecchissima, ma aumentando le dosi. La contraddizione in cui è il seme della risposta l’ha data lo stesso Schumacher citando il Guardian: «Londra ha bisogno di case, non di torri di ’investimenti sicuri’». Le case costruite sull’onda della speculazione, poi, restano vuote.