Anche se per la prima volta l’Arci arriva a congresso con un documento unitario ma con due candidature alla presidenza – Francesca Chiavacci e Filippo Miraglia – a Paolo Beni, che lascia la guida dopo dieci anni, lasciamo per ultima la «domanda delle cento pistole». Guardando prima a quello che sta accadendo nel paese, in Europa e nel mondo, visto con gli occhi della più grande realtà italiana dell’associazionismo.

Beni, si può fare un bilancio di quello è successo nel corso della sua lunga presidenza?

Sono stati anni di grandi trasformazioni. All’epoca della mia elezione il movimento pacifista, per un altro mondo possibile, era al massimo della sua popolarità e diffusione. In questo scenario è cresciuta anche una nuova generazione di dirigenti Arci, oggi alla guida dell’associazione. Si può discutere sul presunto riflusso dei movimenti: io penso sempre che si tratti di un fenomeno carsico, pronto a riapparire come è successo nella stagione dei referendum sui beni comuni. Per certo invece è stato confermato quello che era stato denunciato, e contestato, a Genova: il liberismo ha continuato a produrre disuguaglianze, sempre maggiori. Oggi ci troviamo di fronte a una fase di grande difficoltà, gli anni della crisi hanno prodotto un autentico dramma sociale, cui si accompagna una profonda crisi democratica, vista la sempre minore fiducia dei cittadini nella partecipazione. In questa situazione l’Arci è riuscita ad essere unita e ha mantenuto la sua capacità di essere un presidio fondamentale di socialità, in una realtà sempre più frammentata.

Come gran parte del paese, anche i circoli e le case del popolo sono stati investiti dalla crisi. Come sta oggi l’Arci?

Fortunatamente riusciamo ancora ad essere un’associazione indipendente, autofinanziata ed economicamente sana. L’ho trovata sana, e la lascio sana. Resta il fatto che anche noi sentiamo il peso della crisi, perché le difficoltà della grande maggioranza degli italiani si riflettono anche sulle attività quotidiane dei circoli, specialmente di quelli più piccoli e più deboli strutturalmente

.

Non le sembra che in questo contesto, già difficile di per sé, la politica si sia distinta per la sua latitanza? Quando addirittura non è intervenuta per peggiorare ulteriormente le cose?

Negli ultimi anni siamo andati indietro, è innegabile. La politica dovrebbe aiutare l’associazionismo, invece ci siamo trovati di fronte a tentativi di rimettere in discussione le conquiste fatte nel passato. Penso ad esempio alle agevolazioni fiscali, che sono essenziali per la vita delle realtà associative. In questo campo, anche se formalmente non è cambiato molto, sono stati introdotti dei regolamenti che, pur con l’obiettivo di contrastare eventuali irregolarità, hanno portato a una scarsa chiarezza di fondo. Non disgiunta, spesso e volentieri, da atteggiamenti pregiudiziali. Da un approccio ‘punitivo’ che ha reso la materia particolarmente confusa. Invece il mondo dell’associazionismo meriterebbe, per tanti motivi, di essere incentivato con regole trasparenti. Regole chiare, da rispettare e cui attenersi.

L’Arci ha sempre fatto giustamente vanto di essere autonoma dalla ‘politica partitica’, rappresentandosi come spazio aperto alla discussione nel campo della sinistra democratica e antifascista. Anche una vostra recentissima presa di posizione, nelle pieghe del confronto che si è aperto fra la lista Tsipras, quella del Socialisti e quella dei Verdi in vista delle elezioni europee, sembra andare in questo senso. Ma è stato ipotizzato che l’intervento dell’Arci si sia reso necessario, di fronte ad alcune resistenze dei circoli. Cosa può dirci al riguardo?

L’intervento della direzione nazionale dell’Arci non è stato assolutamente in risposta a presunti problemi di agibilità politica. L’associazione rivendica con orgoglio la sua autonomia, e la sua natura di ‘casa comune’ delle diverse espressioni della sinistra. Indipendentemente dai giudizi personali su questo o quello schieramento politico, pensiamo che sia giusto, e doveroso, aprire i circoli e la case del popolo al dibattito. Per parlare di Europa, con uno sguardo più accurato e ‘aperto’ di quello legato, con un miope riflesso condizionato, alla situazione italiana. La lista Tsipras deve raccogliere le firme per presentarsi alle elezioni: è un grosso scoglio da superare, per questo pensiamo che sia giusto dare una mano, aprendoci alle iniziative della lista e alla raccolta delle firme. Anche per favorire sempre di più il voto degli italiani, ad un appuntamento particolarmente importante. E’ lo stesso spirito con cui apriamo i circoli alle primarie del Pd.

Arriviamo al congresso. Per la prima volta l’Arci deve decidere fra due candidati. In passato c’era stata una situazione simile, con il confronto-scontro fra Benetollo e Rasimelli, ma alla fine solo il primo si presentò alla platea congressuale. Che sta succedendo? E quali sono le differenze tra Francesca Chiavacci, ex presidente di Arci Firenze che si richiama ai circoli, e Filippo Miraglia, responsabile Arci per l’immigrazione, considerato più ‘movimentista’?

Questa volta non c’è stato un accordo preventivo, come avvenne con Benetollo. Ma attenzione, non è un congresso per mozioni. C’è un documento unitario approvato all’unanimità, un progetto condiviso per il futuro. Le differenze tra Chiavacci e Miraglia riguardano la gestione interna dell’associazione, ed entrambi raccolgono consensi. Lo considero un elemento positivo, c’è la possibilità di scegliere fra opzioni diverse. Ben diverso sarebbe se dietro di loro ci fosse una deriva correntizia. Ma così non è: un governo unitario è l’unica opzione sul tavolo, e l’Arci non può fare a meno né di una componente, né dell’altra. Va trovata una sintesi. Nel congresso.