Una donna a capo del governo, cinque ministre in un gabinetto di quindici persone, una governatrice alla guida del più importante Land (il Nordreno-Vestfalia). Il biglietto da visita con il quale la Germania si presenta al mondo, in materia di pari opportunità, non si presta a equivoci: questo è un Paese egualitario. Un giudizio che può formulare anche il turista che passeggia per la capitale Berlino: specie se italiano e maschio, noterà con stupore la quantità di uomini che spingono passeggini o di donne che guidano autobus.
Siamo di fronte a un ulteriore aspetto del tanto decantato «modello tedesco»? Non solo finanze solide e imprese competitive, ma anche una società libera e aperta, dove le donne hanno stesse chances e riconoscimento degli uomini? In parte certamente sì. Ma solo in parte. Perché le contraddizioni non mancano e, se si hanno gli occhi per vederle, finiscono per risultare evidenti.
Nessuno, invece, pare essersi accorto finora di come i manifesti di propaganda elettorale delle due principali forze politiche – la democristiana Cdu della cancelliera Angela Merkel e la socialdemocratica Spd dello sfidante Peer Steinbrück – presentino un’immagine tradizionale del rapporto fra i generi, in base al quale le gerarchie sono ben definite: prima viene il maschio. Naturalmente eterosessuale. La Cdu, per convincere gli elettori a confermare la fiducia al governo uscente, capace di «guardare lontano» nella crisi dell’eurozona, ha messo nei suoi poster un uomo che, attento e sereno, conduce un motorino sul quale siede – ovviamente dietro – anche una donna. Dal canto suo, la Spd si propone come partito attento al problema del caro-affitti con un quadretto famigliare da Mulino Bianco: i bambini che giocano e la madre che si appoggia, abbracciandolo, al pater familias, che è in posizione eretta, frontale e sicura, con sguardo determinato.
Sono figure giovani e vagamente hipster, in omaggio alla moda del momento, ma la sostanza non cambia: sembra di essere cinquant’anni fa, quando Willy Brandt sfidava Konrad Adenauer. Se la rappresentazione che la Germania dà di se stessa attraverso i manifesti dei suoi partiti di massa è questa, allora è legittimo sospettare che non sia propriamente il paradiso dell’emancipazione femminile. Forse un po’ di machismo si annida anche in una Repubblica governata da otto anni da una donna.
A confermarcelo è Julia Fritzsche, giornalista della radiotelevisione pubblica bavarese, co-autrice di una recente, approfondita inchiesta sulla violenza sessuale in terra tedesca. «Sì, è vero che abbiamo una cancelliera e altre donne in ruoli apicali della politica, e anche uomini come il ministro degli esteri Guido Westerwelle e il sindaco di Berlino Klaus Wowereit che sono dichiaratamente omosessuali. Tuttavia – afferma Fritzsche – nella Germania profonda domina un’idea assolutamente tradizionale dei ruoli, ben rappresentata dai manifesti elettorali: il papà lavora e porta a casa i soldi, la mamma si occupa dei figli».
Non a caso, una delle leggi-simbolo della legislatura al termine è stata quella che ha introdotto il cosiddetto Betreuungsgeld, ovverosia un contributo economico alle famiglie che vogliono tenere i bambini piccoli a casa, senza mandarli al nido e alla scuola dell’infanzia. Una norma voluta soprattutto dai cristiano-sociali della Csu (il partito-fratello della Cdu in Baviera) e duramente avversata dalle opposizioni di sinistra, che si propongono – nell’improbabile caso di vittoria alle elezioni del 22 settembre – di cancellarla.
Per usare un eufemismo, si tratta di una misura che non incentiva l’impiego delle madri. Su questo versante, la parità è lontana: a lavorare è il 65% della popolazione femminile, a fronte del 75% nel caso degli uomini. Ancor più indicativa la quota relativa all’impiego part-time: l’81% di chi non lavora a tempo pieno è di sesso femminile. Alcuni dati recentemente diffusi dal governo della città-stato di Berlino, ripresi dal quotidiano die Taz, mettono in luce, inoltre, come le donne guadagnino meno degli uomini in quasi tutti i settori dell’amministrazione pubblica della capitale. Il motivo è presto detto: i ruoli-guida sono generalmente ricoperti da maschi.
Disuguaglianze che sono riconducibili – sostiene la nostra interlocutrice – a un sessismo presente anche in Germania. «Nel nostro Paese è impensabile che un personaggio come Berlusconi si candidi alla guida del governo. Ma ciò non significa affatto – aggiunge Fritzsche – che manchino aggressioni verbali e fisiche ai danni delle donne». E ciò senza che la questione sia tematizzata in maniera adeguata, come sta cominciando – femminicidio dopo femminicidio – ad avvenire, con enorme ritardo, persino in Italia.
Nei mesi scorsi, in realtà, un po’ di dibattito c’era stato. A innescarlo, la denuncia di una giornalista del settimanale Stern, che riferì di avere subito un’offesa sessista da Rainer Brüderle, sessantottenne ex ministro dell’industria e candidato cancelliere della Fdp, il partito liberale alleato di Merkel. Un episodio mai smentito dal diretto interessato, che non ha mai voluto esprimersi sul caso. Ora, tuttavia, del Sexismus-Debatte restano poche tracce. E nella campagna elettorale che sta entrando nel vivo non è certo la questione dei rapporti fra i sessi a essere in cima all’agenda.
Salta agli occhi come sia rimosso il problema della violenza di genere. Come non esistesse. Eppure c’è. «L’esempio più clamoroso è offerto da una manifestazione come l’Oktoberfest, l’evento che attrae più turisti nel nostro Paese. In quei giorni regna una vera e propria Rape Culture, una cultura dello stupro», sostiene Fritzsche. Un concetto del pensiero femminista americano che si applica bene a una situazione nella quale viene sostanzialmente tollerato, quando non apertamente incentivato, il fatto che, nella civilissima Monaco di Baviera, vi siano uomini che molestano o hanno rapporti sessuali con donne impossibilitate a difendersi. Donne che solo una colpevole banalizzazione della realtà – «si è tutti ubriachi e allegri, si fa tutti festa» – può indurre a ritenere «consenzienti». Ma guai a chi tocca l’Oktoberfest.