Il Grande Nord americano ci racconta la letteratura amerindiana, che in Québec chiamano la letteratura delle Premières Nations, le Nazioni Prime. Prima della colonizzazione europea.

L’attuale creazione letteraria – scritta e orale – fa parte di una tradizione secolare. Ciò detto, la letteratura, quella riconoscibile secondo i criteri occidentali, apparve nei secoli XVIII e XIX come forma di resistenza culturale.

Dal lato francofono, gli inizi della letteratura scritta sono generalmente stabiliti negli anni Settanta del secolo scorso.

Nel 2008, si è tenuto a Wendake, nella periferia della città di Québec, il Carrefour international des littératures autochtones de la francophonie (Cilaf), evento che ha riunito scrittrici e scrittori nativi di diverse aree francofone del pianeta: Québec, Nord Africa, Polinesia francese e altri. Questo evento costituisce una data simbolica, in seguito alla quale si è assistito a un’esplosione di pubblicazioni che hanno consentito di riflettere anche sul paradosso della realtà linguistica che caratterizza il Québec. Queste scritture infatti, inedite fino a qualche decennio fa, hanno spinto a considerare il carattere coloniale della lingua francese. Per i québecchesi francofoni si tratta di allentare le maglie delle prospettive immobili: la perdurante resistenza all’influenza dell’anglofonia canadese e americana è sorella delle resistenze per la salvaguardia delle lingue autoctone.

La parabola di una poeta, Joséphine Bacon, sembra mimare il cammino della letteratura amerindiana. La sua prima raccolta di poesie risale al 2009, nonostante il pensiero poetico le appartenesse fin da prima. Nata nel 1947, di etnia e di lingua innu, è originaria di Pessamit, riserva indiana all’imbocco del fiume Betsiamites non lontana dalle ampie sponde del San Lorenzo. Le sue raccolte poetiche si presentano nelle due lingue: il francese rappresenta la lingua della traduzione e l’innu quella dell’espressione prima, originaria e dell’attaccamento al territorio d’origine. Joséphine Bacon è infatti traduttrice e interprete della documentazione e alla raccolta delle memorie linguistiche della lingua innu-aimun, così come è sostenitrice della cultura, della tradizione orale e della storia di questa Prima Nazione. Ha ottenuto riconoscimenti internazionali come poeta, narratrice e paroliere ed è riconosciuta come ambasciatrice per la sua cultura e lingua sia in Québec sia all’estero.

Abbiamo incontrato Joséphine Bacon all’interno del ricco spazio del Marché de la Poésie di Parigi che in quest’ultima edizione – conclusasi di recente – ospitava proprio il Québec.

«Mi sono fatta bella perché si noti il midollo delle mie ossa, sopravvissuta a un racconto che non si racconta». Che relazione intrattiene la sua poesia con la memoria?
La poesia che scrivo racconta la mia memoria; e anche quella di chi mi ha trasmesso la propria di memoria tramite i suoi racconti. Questa memoria, che in un passato destinato – un passato di scambio tra me e loro – è diventata anche la mia, parla di questo passato e non solo del mio proprio. È la mia memoria ma anche la memoria della loro memoria.

Si ritiene comunemente che le culture dei Primi Popoli siano innanzitutto orali. Perché ha deciso di iniziare a scrivere?
La mia cultura d’appartenenza è certamente orale. E continua a esserlo, nonostante da qualche decennio sia diventata anche scritta. Da poco tempo infatti essa si è riconvertita: da una parola dell’oralità è diventata una parola scritta e lo è diventata per esigenze di comunicazione, di scambio di pensieri tra individui da una nazione all’altra. Io ho dovuto cominciare a apprendere a scrivere e a leggere la mia lingua come succede quando si apprende una lingua straniera, con la differenza che questa lingua apparteneva già al mio parlato. Credo che sia come quando si apprende a scrivere e a leggere un dialetto. Nel mio caso è come se avessi dovuto imparare a comunicare in una lingua di cui oralmente avevo già nozione, ma che prima di quel momento non conosceva ai miei occhi una resa scritta.

Nella sua raccolta Un thé dans la toundra/ Nipishapui nete mushuat (2013), la sua poesia parla della tundra, dei cacciatori, delle donne indigene, del territorio e dei riti. L’immaginario delle poesie è tratto dall’esperienza diretta dei luoghi oppure dai racconti delle anziane e degli anziani?
Ho visto la tundra per la prima volta nel 1995, durante la prima riunione degli anziani di tutte le comunità innu a Schefferville. In quell’occasione fui accolta da un cacciatore di caribù, Iskuateu-Shushep e da sua moglie Maïna. Accompagnai Iskuateu-Shushep alla caccia e quel giorno lui mi insegnò che per vedere (in quel caso gli animali all’orizzonte) è necessario saper guardare. Altrimenti vedere è impossibile, in quelle ampie distese di terra. L’orizzonte era tutto attorno ed era come se fossi nello spazio, sospesa nel tempo. Fu in quell’occasione che vidi la tundra per la prima volta e che incominciai a raccontare di lei. Ho visto con i miei occhi ciò di cui avevo sentito parlare nei racconti degli anziani. In quell’occasione ho percepito i motivi per cui un kamanitushit, un uomo di conoscenza, che voi in occidente chiamereste sciamano, è dotato del «potere dello spirito» ma dice di non parlarne e di coltivare il silenzio di questa sua dote. Ho riconosciuto l’importanza della reticenza, del riserbo e dell’intimità con il proprio sé.

Nelle poesie di questa raccolta la tundra è personificata; le si rivolge come se fosse un essere vivente. Può dirci da dove proviene questa intimità con il territorio?
Durante quella mia prima esperienza di caccia nella tundra ho realizzato cosa intendesse dire Mishta Napeu, quello che chiamavamo il Grande Uomo, quando mi diceva: «Se un giorno andrai nella tundra, sentirai che la Terra ti porta». La tundra, che chiamiamo Mushuau-Assi, mi ha insegnato a sentire i suoi battiti e insieme ai suoi anche quelli degli spiriti dei viventi e dei defunti. Grazie a lei ho sentito i battiti dei sogni che si compiono. L’attraversamento della tundra mi ha permesso di respirare la Terra e di calpestarne gli spazi. Maïna, alla fine della caccia mi ha chiesto di cercare una pietra e di riporla sulla roccia dove aveva tagliato il caribù che avevamo cacciato: quella pietra indicava e le ricordava la mia presenza in quel luogo, in quel preciso momento. Quel giorno, in quel luogo avevamo cacciato e ucciso un caribù e quell’atto rappresentava il nostro rispetto nei confronti dell’animale e della Terra vivente: se dimentichiamo che la terra ha un’anima, dimentichiamo anche il significato del rispetto che dobbiamo portarle.

Qual è la casa che ha lasciato, quale quella che sta cercando?
Aver attraversato la tundra mi aiuta a rispondere a mio modo a questa domanda, nella maniera che forse non vi aspettate. L’esperienza dell’attraversamento è come una spedizione in cui siamo guidati a sperimentare ogni emozione, in cui saggiamo lo scorrere gli spazi che entrano in noi. Attraversare la tundra, camminare su una porzione di territorio mi ha permesso di entrare in armonia con le direzioni. La tundra mostra l’infinità di queste direzioni, la molteplicità dei cammini, dei luoghi che si cercano e anche di quelli che si lasciano. Mostra la larga immensità della Terra.