Una Bucarest ibrida e insolente nei reportage di Margo Rejmer
Reportage letterari «Bucarest Polvere e sangue», da Keller
Reportage letterari «Bucarest Polvere e sangue», da Keller
In una nota di Lapidarium Ryszard Kapuscinski coglieva una contraddizione di fondo dello spirito polacco, ossia «la nostra mentalità così campanilista e provinciale» a fronte della cruciale posizione geopolitica del paese. A distanza di quasi trent’anni, una generazione di reporter sembra aver ormai sviluppato quella consapevolezza più ampia del proprio posto nel mondo di cui Kapuscinski segnalava la necessità, intessendo anzi veri e propri rapporti d’elezione con determinate nazioni.
Alla Cechia indagata con passione da Mariusz Szczygieł o alla Turchia di Witold Szabłowski occorre aggiungere la Romania di Margo Rejmer, autrice nel 2014 di Bucarest Polvere e sangue, ora tradotto per Keller da Marco Vanchetti (pp. 304, € 18,30). Con brio e ironia, Rejmer delinea i contorni di una città eccessiva, ibrida, insolente, senza cadere in stereotipi orientalisti, ma trasmettendone l’energia selvaggia e incontrollabile.
Quello di Rejmer per la capitale rumena è un amore basato sull’incomprensione: Bucarest sembra sfuggire di mano, ogni volta che si ha la sensazione di aver colto qualcosa del suo carattere, fedele a un destino di impermanenza sancito dai frequenti incendi e terremoti che l’hanno devastata nel corso della storia. Difficile tracciarne i confini: i conquistatori turchi avevano proibito di erigere mura a sua difesa e, a tutt’oggi, la campagna si mischia alla città in un bizzarro continuum: «…lo spazio non ha subìto limitazioni, ognuno poteva avere un orto e metterci dentro galline e vacche. È difficile dire se Bucarest sia una piccola città o un grande villaggio».
Altrettanto spiazzante è il comportamento dei suoi abitanti, spesso indecifrabile perché segnato dalla rimozione degli eventi più traumatici del passato, in primis della dittatura di Nicolae Ceausescu. Spaziando dai branchi di cani randagi che vivono in città alle conseguenze drammatiche che ebbe sulla società rumena il decreto che nel 1966 vietò l’aborto, Rejmer confeziona un libro mai banale, animato da un sincero desiderio di comprendere la logica talora sorprendente di quei vicini post-socialisti.
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