Si chiama carne in vitro oppure carne artificiale o anche carne coltivata, ma negli Stati Uniti la chiamano «carne pulita», per renderla più digeribile. Siamo nel campo dell’ingegneria tissutale, la branca della bioingegneria che studia la capacità dei tessuti di rigenerarsi, con applicazioni in campo medico ma anche alimentare perché grazie a questa tecnologia, partendo da cellule staminali prelevate con biopsia da un animale vivo e facendole riprodurre in laboratorio, è possibile creare qualcosa di simile alla carne, senza allevamenti né macelli.

Un visionario e amante degli animali come Winston Churchill già negli anni Trenta preconizzava un futuro nel quale non sarebbe stato più necessario allevare un pollo intero, ma solo petto e cosce. Noi stiamo entrando in quel futuro. I centri di ricerca e le aziende che lavorano sulla carne artificiale fanno già previsioni su quando sbarcheranno sul mercato: qualcuno si era sbilanciato a dire a fine di quest’anno, altri sanno di avere bisogno ancora di 3/4 anni per perfezionare il prodotto.

Quale prodotto? Una polpetta, o meglio, filamenti di tessuti di manzo, pollo, maiale, anatra e analoghi studi si fanno sul tonno. L’obiettivo di lungo periodo sarà di riuscire a replicare una bistecca, con tanto di grasso, che conferisce sapore, e sistema vascolare per renderla succulenta.

«Chi ne sarà capace si aggiudicherà il premio Nobel – dice Carmelo De Maria, ricercatore del gruppo di Biofabbricazione del centro di ricerca E.Piaggio dell’Università di Pisa – Con la tecnologia delle stampanti 3D siamo in grado di mettere insieme molti elementi e ricreare qualcosa di vagamente simile ad un sistema vascolare, ma su piccolissima scala. Personalmente penso che dovremmo consumare meno carne e pagarla di più: la carne in vitro, senza sangue, sarà più simile ad un omogeneizzato».

«Se fossimo capaci di riprodurre in vitro una bistecca saremmo già in grado di riprodurre un cuore», aggiunge Paolo Netti, coordinatore del centro per i biomateriali avanzati dell’Istituto Italiano di Tecnologia a Napoli. «Per ora riusciamo a ricreare dei tessuti semplici, così sottili che riescono a ossigenarsi anche senza un sistema vascolare: infatti, se li osserviamo sono incolore perché il rosso della carne lo dà il sangue. Ricordiamoci che il muscolo è uno dei tessuti più complessi da realizzare. Quindi al momento è ancora meglio la soia. Però siamo sulla buona strada, l’idea di fondo è senz’altro buona: istruire entità biologiche per costruire sostanze utili all’uomo. Coltivare cellule, non più animali».

Anche perché gli animali – in particolare i bovini – non sono così efficienti. Per produrre 1 kg di carne rossa servono 15 mila litri di acqua e 7 kg di mangime (va meglio con maiale e pollo a cui servono rispettivamente 5.900 e 4.300 litri d’acqua e 4 e 2 kg di mangime). Attualmente, due terzi delle terre coltivate del pianeta sono destinate all’allevamento, come pascoli per coltivare foraggio, soia o cereali che finiscono nelle mangiatoie. La deforestazione è la più evidente esternalità negativa degli allevamenti, in particolare di quelli intensivi.

Un punto a favore della carne artificiale è quello ambientale. L’allevamento animale contribuisce per il 18% alle emissioni di gas climalteranti (il 37% del metano legato alle attività umane è emesso dagli animali), più o meno quanto i trasporti. Considerando che da qui al 2050 è previsto che i consumi di carne crescano del 70% a causa dell’aumento della popolazione e della sempre maggiore richiesta da parte dei paesi emergenti, è evidente che la produzione di carne sia del tutto insostenibile. Non abbiamo abbastanza terra per saziarci di bistecche.

È legittima dunque la ricerca di fonti proteiche alternative e più pulite. Resta da stabilire in che forma. «Dal punto di vista nutrizionale non abbiamo bisogno di carne in vitro – afferma Gianna Ferretti, docente all’istituto di biochimica della Scuola di Specializzazione in Scienze dell’Alimentazione dell’Università Politecnica delle Marche – abbiamo a disposizione così tante fonti proteiche vegetali e una tale biodiversità!»

Ridurre l’assunzione di proteine animali (in Italia i nostri bambini assumono il doppio delle proteine necessarie) potrebbe non bastare, ed è improbabile immaginare un vegetarianismo di massa, soprattutto nei paesi dove l’appetito per la carne ha atteso a lungo di essere soddisfatto.

I VANTAGGI AMBIENTALI della produzione di carne artificiale sembrano innegabili. Le Analisi del Ciclo di Vita, per quanto parziali perché una produzione su larga scala non esiste, indicano un minore consumo di acqua e terra nell’ordine del 90%, mentre le stime su quanto e se si possa risparmiare in termini energetici non sono concordi.

Altro punto di forza della carne in vitro è quello etico: creare un prodotto che possa ridimensionare o mettere fine allo sfruttamento e alla sofferenza degli animali d’allevamento. E – ma questo è tutto da dimostrare – che contribuisca alla sicurezza alimentare in un pianeta sempre più affollato.

QUANTO COSTERÀ LA CARNE ARTIFICIALE? Il primo hamburger creato in laboratorio, presentato e assaggiato 5 anni fa a Londra, è costato 300 mila euro. Era stato prodotto in Olanda da Mosa Meat, spin-off dell’Università di Maastricht, guidata dal professor Mark Post, uno dei pionieri del settore. Perché un hamburger costa quanto un appartamento? Al netto del costo della ricerca, i 10 miliardi di cellule di cui è costituito un hamburger sono stati nutriti con un fluido, chiamato medium dai biotecnologi, che contiene tutti gli elementi nutritivi che supportano la crescita e la maturazione delle cellule. Nel medium utilizzato finora per la ricerca è presente il siero fetale bovino, elemento essenziale per la proliferazione della cellule in vitro, che si ricava dal sangue del feto di mucche macellate gravide, un derivato della filiera della macellazione, costosissimo ed eticamente inaccettabile.

«Dobbiamo eliminare il siero dal medium, questo è evidente, e siamo a buon punto, anche se il processo va ancora ottimizzato, quindi non sono in grado di dire al momento quali fattori di crescita useremo – ammette Mark Post – l’uso del siero è insostenibile e incompatibile con i nostri standard di benessere animale, oltre ad essere un possibile veicolo di malattie». Il siero dunque viene rimpiazzato da sostanze sintetiche o di origine vegetale. Da Tel Aviv, Shir Friedman dell’azienda Super Meat ci spiega che, a parte le cellule staminali prelevate una volta sola da un pollo, tutti i nutrienti per allevare le cellule sono di origine vegetale. Poi aggiunge: «Il nostro scopo è nutrire le cellule con le stesse sostanze che avrebbero assunto se fossero all’interno del corpo dell’animale, quindi anche ormoni e vitamine».

SUPER MEAT HA FIRMATO ACCORDI COMMERCIALI con Phw, il colosso tedesco del pollame, e con la Cina. Per trovare altre aziende che coltivano carne in vitro bisogna andare in California, dove diverse start-up sono in corsa per sbarcare sul mercato, con alterne vicende. L’azienda con le spalle più forti in termini di risorse finanziarie è Memphis Meats, su cui hanno investito personaggi come Bill Gates e Richard Branson e colossi come Cargill e persino Tyson Food, il secondo produttore mondiale di carne. Non c’è modo di sapere a che punto sono con la ricerca, non rispondono alle nostre domande. «Ci siamo presi una pausa con la stampa» ci dicono. Nemmeno Finless Food, specializzata nelle polpette di pesce, ha risposto. Sarà perché l’Associazione degli allevatori americani ha da pochi giorni presentato una petizione al Dipartimento dell’Agricoltura per chiedere che quella prodotta in laboratorio non possa essere chiamata carne?

IN ITALIA LE COMPETENZE DI INGEGNERIA TISSUTALE sono tutte orientate al campo biomedico, nessuno si è ancora messo a coltivare cellule sulla piastra di Petri per uso alimentare, però «c’è molta attenzione agli sviluppi della Cellular Agriculture tra le aziende italiane – conferma Sharon Cittone, capo dell’ufficio comunicazione di Seeds&Chips, la piattaforma dedicata alla innovazione del cibo – la carne in vitro è tanto rivoluzionaria quanto necessaria. In questa fase dobbiamo stare attenti alla comunicazione: l’idea di mangiare qualcosa creato in laboratorio può spaventare, soprattutto in Italia dove il consumatore è legato alla tradizione. Sarà carne pulita, per molti aspetti anche più sicura di quella che proviene dai macelli, prodotta in ambiente sterile. L’innovazione è un processo che avanza. Anche le uova si produrranno in laboratorio, con la possibilità di ricalibrare il contenuto proteico a seconda delle necessità del consumatore. Il futuro è del cibo personalizzato e targettizzato».

Varie ricerche dicono però che solo due persone su 10 sarebbero disposte ad assaggiare la carne artificiale. La diffidenza non preoccupa Mark Post: «Siamo fiduciosi che quando arriveremo sul mercato con un prodotto di alta qualità e ad un prezzo competitivo, i benefici della carne artificiale attireranno i consumatori. Ben vengano anche i surrogati della carne prodotti con proteine vegetali: ma non si può fare carne vera partendo da proteine vegetali. Dalle cellule animali sì».