L’ennesima burla dell’enfant terrible Sylvano Bussotti ruzzola anche sul volume Sylvano Bussotti e l’opera geniale del musicologo Renzo Cresti, pubblicato da Maschietto editore di Firenze e pensato come omaggio per quei novant’anni che l’artista ha lasciato da commemorare e ricomporre a chi resta. Il volume, pregevole per fattura e qualità delle immagini, nonché nel dono in un inedito, si aggiunge a una bibliografia oggi non troppo ricca, tolti i libri-opera d’arte, non sempre reperibili, dello stesso Bussotti. Cresti condensa con passione in un articolato percorso saggistico le varie tematiche della poetica e dell’arte di Bussotti, riesce a tratteggiare bene la vicenda biografica complessa e fitta di momenti di pienezza vitale e artistica, per arrivare alla rarefazione solo apparente dell’ultimo ventennio.

SI INIZIA con l’eterno dualismo fra Firenze e l’influenza veneta, padovana prima di tutto, con la rivelazione dell’eros e l’importanza dell’arte e della figura dello zio Tono Zancanaro, prolifica poi anche nelle collaborazioni in teatro (ma si cita anche il pittore Giuliano Pini). L’incontro col violino, gli studi con Dallapiccola e con Max Deutsch, le diverse ramificazioni di un percorso personalissimo, che trova punti di contatto con molti ma non somiglia a nessuno, tanto è fuori da scuole, schemi e etichette.

Sfilano le composizioni e i disegni messi sinotticamente a confronto, segni che diventano partiture già per i Pieces for David Tudor e i Piéces de Chair II. Brilla quella «y» aggiunta per un errore ai Rencontres d’Aix-en-Provences e acciuffata al volo, e poi la Schola Fiorentina di metà anni ’50, i rapporti con Darmstadt, il serialismo, la rivelazione di Cage, gli incontri con Heinz-Klaus Metzger dalle cui sollecitazioni nascerà La passion selon Sade, e ancora con Boulez, Berio e Cathy Berberian, Nono.

SI SEGUE lo sviluppo maturo di una concezione dell’opera che si ricostruisce di continuo, rizomaticamente, con i frammenti di altre opere, come nelle tante rielaborazioni di Rara. Non manca il balletto, a un tempo esperienza grafica, coreografica e musicale, che dagli anni Settanta si rafforza e fiorisce assieme alle opere nei grandi teatri, Venezia, Roma, Milano, Palermo, e nell’esperienza di Genazzano grazie all’incontro con Rocco Quaglia, compagno di mezzo secolo la cui intervista schiva e sincera che è fra i passaggi più intensi del libro.

Si indaga a fondo il meccanismo delle opere segno che si fanno musica per poi tornare segno, risultato cangiante di una personale elaborazione dell’opera aperta. Si illumina l’idea del linguaggio musicale come burla che «possiede il carattere enigmatico del dire qualcosa che si intende e al tempo stesso non si intende» e si precisa così come l’individualismo bussottiano innestasse una ribellione – anche queer – alla massificazione della cultura anche più forte di quella dei compositori engagé. Nell’analizzare i frutti di una creatività artistica vivacissima, vissuta come arcano e come rituale mai uguale a sé stesso si lascia emergere una sola urgente necessità: riportare Bussotti sulla scena. Ancora vivo.