I cinquant’anni dalla morte di Eliot, avvenuta il 4 gennaio del 1965, hanno suscitato non troppo clamore, nel nostro paese. Forse perché quest’anno molte energie sono state spese nel ricordo di un altro appuntamento, quello col settecentocinquantesimo di Dante; o forse per ragioni ancora tutte da sondare, quali magari la presunta oscurità dello scrittore, il fatto che la sua opera poetica subisca, nell’arco della lunga parabola, più di una rivoluzione, inversione, involuzione, ed evoluzione.

Sta di fatto che T.S. Eliot continua a essere percepito come un autore troppo elitario per un pubblico di non esperti e, raramente, la sua opera oltrepassa la soglia delle mura universitarie. Questo stona, e non poco, con le ambizioni di tanta parte della sua produzione, soprattutto quella critica, per non parlare dell’infaticabile attività editoriale: tutte missioni che miravano a parlare, sempre da una prospettiva futurologicamente conservatrice, a un pubblico più ampio della cerchia degli appassionati delle rarefatte poetiche del modernismo. E stona anche col grande successo internazionale, ad esempio, del musical Cats, basato proprio su testi poetici di Thomas Stearns Eliot. L’opera è presente da decenni, sui più frequentati palcoscenici internazionali; il che la dice lunga anche sulle capacità della poesia – e soprattutto della «poesia drammatica», come è stata definita quella di Eliot – di superare le barriere, queste sì conservatrici, di specialismi ed elitismi di sorta.
Al successo ancora palpabile della traduzione teatrale dell’Old Possum’s Book of Practical Cats di Eliot, si affianca quello di un altro play in versi, assai più austero, L’assassinio nella cattedrale, anch’esso regolarmente messo in scena, sebbene con meno frequenza.

Quest’incrocio di Eliot con pubblici non solitari viene poi confermato dal riconoscimento transnazionale da parte delle grandi accademie, concretizzatosi nel Premio Nobel per la letteratura e in premi meno ricordati, ma altrettanto prestigiosi, come la Dante Gold Medal o il Goethe prize.
L’anno del cinquantenario dalla morte vede la pubblicazione di una nuova interessante biografia di Eliot, a firma di un giovane poeta e accademico, Robert Crawford, dal titolo, Young Eliot: From St Louis to The Waste Land (Jonathan Cape, pp. 512, £25). Seguirà, sempre dello stesso autore, un secondo volume che avrà a che fare con gli anni della maturità. Una novità di questo lavoro è il fatto che riesce nella sfida di gettare luce su anni fino ad ora non troppo sondati della vita del poeta. Ciò era dovuto, va detto, alla scarsezza di documentazione, soprattutto in relazione alla fine dell’adolescenza, periodo estremamente importante alla luce degli sviluppi futuri della sua opera.

Crawford entra nel vivo di quegli anni dedicando molto spazio, ad esempio, ai rapporti coi genitori, e anche al fatto che entrambi nel tempo libero si dedicassero alla poesia. I rapporti con la consorte ricevono grande attenzione, come pure l’esaurimento nervoso che colpisce entrambi a più riprese, la separazione nel 1933, e il ruolo che tali traumi hanno poi avuto nella produzione di colui che non si fatica a chiamare il maggior poeta inglese del Novecento.
È lo stesso biografo ad ammettere d’aver lavorato a partire da un punto di vista vantaggioso rispetto ai colleghi del passato, potendo citare sia dagli scritti pubblicati che da quelli inediti; il che «facilita la comprensione di quanto strettamente e dolorosamente connesse fossero la sua vulnerabile vita e la magnifica produzione poetica».

In Italia esce poi, in questi mesi, una preziosa monografia su Eliot per la firma di Renzo Crivelli, una delle voci storiche negli studi dell’altro grande esponente del modernismo novecentesco, James Joyce (T.S. Eliot, Salerno editrice, pp. 312, euro 16). Il libro di Crivelli si propone sin dalle prime pagine di presentare un Eliot a tutto tondo, a partire dal dato biografico, per poi affrontare singolarmente le opere principali. Emerge nella rilettura di Crivelli, come per lo studio di Crawford, la consapevolezza che arte e biografia siano inseparabili (dello stesso autore opere anche sulla vita e sul soggiorno triestino di Joyce, con un particolare accento su quanto questo abbia influito sulla genesi ideazionale delle sue opere). Le presunte contraddizioni dell’atteggiamento di Eliot nei confronti della religione vengono viste come intense peregrinazioni personali ed esistenziali, più che come sovrastrutture da imporre sull’interpretazione dell’opera.
Quasi il poeta, sentendo gradualmente, e sempre più il bisogno di un sistema valoriale messo a dura prova dagli eventi, della vita e della storia, finisca poi per produrre opere che da quel sistema dipendono, ma solo per parzialmente emanciparsene nell’atto della lettura.

A bilanciare l’ibridismo ambivalente delle origini nazionali di Eliot – «un americano che si forgiò all’inglese» è stato detto – Crivelli propone una lettura europeista della sua opera: «scorgiamo, al centro delle sue teorizzazioni, una consapevolezza che lo rende ulteriormente attuale: l’idea di una letteratura europea, in cui, trasversalmente, possa circolare e affermarsi lo stesso concetto di ’classicità’ (basato sulle comuni origini greco-latine). Se l’Europa è un tutt’uno, allora la letteratura europea è una sola». È una lente critica, questa, che consente di riflettere, più in generale, su questioni, extra-letterarie ma non troppo, relative al modellarsi, ancora in itinere – e lo dimostrano gli eventi perturbanti degli ultimi tempi – di un’identità europea che forse, dall’insegnamento della grande poesia può trarre più d’uno spunto.

A ridosso dell’Expo milanese, il poeta e presidente irlandese Michael D. Higgins ebbe a suggerire che «a volte il lavoro dei poeti può correggere quello degli economisti». Le riflessioni di Eliot hanno poco a che fare con un’ottica economica di larga scala (certamente fu a contatto con dinamiche commerciali in quanto editore), ma possono ancora offrire qualche consiglio al determinarsi delle condizioni, politiche e sociali, per una ridefinizione – declinata al futuro, ma radicata nel passato – di un sentire europeo che piacerebbe chiamare «più o meno» comune.