Con La frontiera, appena pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli (pp. 320, euro 17), Alessandro Leogrande si conferma uno dei nostri migliori giornalisti. Il libro è l’ultimo tassello di un lungo e consapevole percorso di ricerca e carotaggio, nel solco della migliore inchiesta sociale italiana, quella di Danilo Dolci, Guido Montaldi, Camilla Cederna, Corrado Stajano, contaminata con i contributi dei numi tutelari della non fiction americana, da Truman Capote a William Langewiesche. Le ambizioni sono le stesse, ieri come oggi, in Italia come negli Stati Uniti: raccontare per capire meglio. La frontiera arriva dopo altri libri importanti dello stesso autore, tra cui Uomini e caporali (Mondadori 2008), un viaggio tra i nuovi schiavi nel tavoliere delle Puglie, e Il naufragio (Feltrinelli, 2011), sui profughi albanesi uccisi il 28 marzo 1997 in seguito allo speronamento della nave Kater i rades da parte di una corvette della marina italiana.

Ne La frontiera Leogrande affronta un tema già battuto dalla pubblicistica, le migrazioni verso l’Europa. Racconta le storie di chi, per necessità o per scappare «da una vita non vissuta», lascia il proprio paese e costruisce una nuova vita, altrove. Ciò che lo distingue dai volumi sullo stesso argomento, oltre alla capacità di tenere insieme ricerca documentaristica e narrazione, è il metodo. Leogrande narra e mette in ordine il «cosa» e il «come»: la mobilità delle frontiere, le risposte istituzionali, le strategie con cui i migranti sovvertono ed eludono gli apparati repressivi degli Stati-nazione, il razzismo di casa nostra e quello di Alba Dorata, gli esempi di resistenza virtuosa, le associazioni e i singoli che si battono per la dignità di tutti, le storie di chi ce l’ha fatta e le tante speranze letteralmente naufragate nel mar Mediterraneo. I sommersi e i salvati.

Ma l’obiettivo è un altro. Comprendere la motivazione. È la lezione dei migliori interpreti del giornalismo narrativo, quel genere al quale è stata finalmente riconosciuta dignità letteraria con l’assegnazione del premio Nobel alla scrittrice Svetlana Aleksievic. «Il giornalismo vero è quello intenzionale», ricordava spesso il reporter polacco Ryszard Kapuscinski. Il giornalismo che punta a qualche forma di cambiamento. E che per farlo parte da una domanda semplice e insieme complessa: perché?
Se «riduciamo il popolo del peschereccio affondato al rango di vittime», ci allontaniamo dal contesto. Senza contesto svaniscono i corpi, inghiottiti dalla retorica; evaporano le biografie, ridotte a statistica; sfuggono le cause e le responsabilità, trasformate in destino. Ma dietro ogni naufragio, dietro ogni viaggio finito male, ricorda Leogrande, non c’è nulla di fatale, di ineluttabile, di naturale.

Ci sono le storie individuali e c’è la grande storia. C’è un groviglio di ambizioni, ideali e illusioni, intrecciati con i grandi avvenimenti e le trasformazioni della politica, della società, dell’economia. Tenere insieme i piani, dare conto degli intrecci, del modo in cui ogni fattore condiziona e alimenta l’altro e ne viene a sua volta condizionato, non è facile. Per farlo, Leogrande sceglie di partire proprio dai naufragi, perché sono buchi neri che vanno illuminati, chiedendo «di essere sottratti all’oblio», ma soprattutto perché gli approdi via mare sono i «sismografi» dei cambiamenti in corso. Nel «sommovimento del mondo», nella mutevole mappa delle frontiere tra nord e sud del mondo, che ridisegnano incessantemente se stesse, i naufragi e gli approdi sono tra le poche coordinate di riferimento.

Così, l’attenzione riservata al naufragio del 3 ottobre del 2013, quando a pochi metri da Lampedusa è affondata una barca carica di migranti, serve a restituire voce alle 366 vittime accertate e ai pochi sopravvissuti, agli eroi ordinari e ai familiari che pretendono un corpo e una tomba su cui pregare, ma serve anche ad aprire una finestra sul contesto di provenienza di chi viaggiava su quella barca. Le pagine sull’Eritrea, filtrate attraverso le voci degli esuli e dei rifugiati, delle tracce inseguite e dei «giornali di Gabriel», in un andirivieni continuo tra il presente e il passato, tra il corno d’Africa e la Roma imperiale, sono le più belle del libro.

Leogrande racconta un sogno rivoluzionario che si fa incubo, le promesse tradite, la graduale trasformazione del Fronte popolare di liberazione nella dittatura di Afewerki. Ma rincorre anche i fantasmi coloniali, ricordando che molti campi di concentramento in cui oggi il regime di Afewerki rinchiude oppositori e dissidenti sorgono negli stessi luoghi dei campi di concentramento italiani. Quanto accade in quei campi rasenta il grado zero della violenza, come nel Sinai, dove i migranti vengono sequestrati e spesso torturati e «l’orrore si sprigiona assoluto, indifferente, banale sui nudi corpi, a migliaia di chilometri dai riflettori che possano illuminarlo».

La frontiera non è solo un libro sull’orrore. Ci sono storie di resistenza, come quella della «strana coppia», l’attivista eritrea Alganesh Fessaha e l’imam salafita Mohammed Abu Bilal, entrambi impegnati nella liberazione dei migranti sequestrati nel Sinai. Ci sono storie di partenze e di ritorni, come quella del kurdo iracheno Shorsh, che in Alto Adige/Sudtirolo impara la grande lezione di Alex Langer, sul «tradimento» della propria identità come strumento di libertà e condivisione.

Ma l’orrore c’è. Fa parte della storia. Anche di quella dei nostri giorni. È il prodotto di scelte politiche, sulla cui legittimità dobbiamo interrogarci. E di cui dovremmo assumerci la responsabilità, come cittadini di quella Fortezza Europa che militarizza i confini e criminalizza chi sceglie di migrare. E le responsabilità sono anche di scrive. In particolare quando viene raccontato il dolore degli altri. «Come maneggiare la memoria e il dolore?» si chiede Leogrande. «Fino a che punto è lecito scavare, porre e porsi domande, interrogare i superstiti?» «Come farsi testimone dell’unicità di ogni ferita?».