C’era una volta una bambina inglese che nel 1939, a tre anni, fu evacuata da una grande città industriale in campagna, lontano dai bombardamenti tedeschi. Con lei è la madre, donna colta e lucida in tempo di guerra, sbiadito fantasma quando verrà la pace, che le regala una copia di Asgard e gli dèi, adattamento inglese, datato 1880, del manuale di Wilhelm Wägner. La bambina senza nome, una bambina magra e razionale, conosce in questo modo – senza la mediazione edulcorata di versioni toccate dall’escatologia cristiana, o purgate dalla violenza originaria – le saghe della mitologia norrena. Antonia S. Byatt riscrive così l’antica cosmogonia scandinava in Ragnarök La fine degli dèi (Einaudi, traduzione di Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, pp. 152, euro 17,50), racconto lungo commissionato da Canongate per la collana Myth Series, in cui scrittori eminenti reinterpretano i miti fondativi della nostra cultura. Lo fa evitando le astuzie evidenti della metafiction per una struttura in monocromia, laconica e sfuocata.

Il libro è, prevedibilmente, una storia su come la protagonista, incontrando Ragnarök da bambina, si imbatta in un’immaginazione feroce, in grado di tenere testa non solo al mondo arcano dell’Edda, ma anche a un presente in cui «la vita era uno stato di cose in cui eravamo in guerra». Ragnarök è il giudizio o destino degli dèi, il mito cupo che termina tutti i miti, in cui gli dèi muoiono. È l’explicit del racconto di come il mondo «si era formato, si era popolato di esseri magici e potenti, e poi era finito. Una Fine vera. La Fine».

L’incontro fra la bambina e questa morte senza appello, in cui ogni cosa si immerge in un’acqua nera ed è per sempre nulla – a differenza delle versioni cristianizzate dell’Edda, o del Crepuscolo wagneriano, come spiega Byatt nell’appendice critica, intitolata «Pensieri sui miti» – avviene perciò in concomitanza con l’Apocalisse della guerra mondiale. Il padre della bambina è pilota nella Raf, e probabilmente non tornerà mai a casa; gli altri adulti vivono nel terrore di una fine imminente. La madre le regala un libro che porta inscritto in maniera nitida e cruda il Senso della fine: è infatti con un classico controverso di teoria della letteratura come quello di Frank Kermode, pubblicato nel 1966, che la narrazione di Byatt instaura un dialogo fitto e esteso. La metafora comune è quella del finale come dispositivo di coerenza del testo narrativo, in accordo con l’organizzazione simbolica del racconto, che dall’informità disorientante di chronos crea il disegno, la teleologia di kairós, formalizzando l’esperienza del tempo e rendendolo così una stagione gravida di significati. L’idea seminale è una secolarizzazione dell’éschaton cristiano: la certezza di uno svelamento a venire, di una fine – o finale – che recherà con sé un fine (la finalità di una salvezza), e che imprime perciò al manifesto un ordine di coerenza e intelligibilità, paradossalmente dettato dall’attesa dell’inattingibile.

Ecco la funzione antropologica della forma narrativa, condensata nella cogenza del finale: una sintesi, necessariamente illusoria, fra la barbarica varietà della vita e la sua resa, «come direbbe un matematico, in un ordine unidimensionale». La dinamica escatologica del racconto racchiuderebbe così un cruciale atteggiamento epistemologico, l’Apocalisse. Non tanto, però, la previsione di un’imminente fine del mondo, quanto un atto di interpretazione di questo stesso mondo come nebulosa immanente di segni da decifrare, come ipotesi da articolare, come paradigma (oscurato, attenuato) da individuare, contornare, disegnare. Ecco il portato cognitivo della concordanza fra inizio, peripezia, finale: dare forma a un enorme, fantasmatico come se. Il mondo come testo da decifrare, insomma, e viceversa. È il paradigma di Hermes, e proprio sotto la sua egida, con un atto di fede in quella che Hans Blumenberg chiama la leggibilità del mondo, ha inizio il racconto della bambina magra. Sua madre, personaggio elusivo e sofferto (ricalcato su Kathleen M. Drabble, madre di Byatt), «più reale, e più disponibile, quando erano in gioco gruppi di lettere su una pagina» che non nella vita quotidiana, le fa dono del testo di Wilhelm Wägner. Le fornisce il senso della fine che darà forma alla sua intelligenza del mondo; le presta una cosmogonia votata a una distruzione senza assoluzione, che nasce da un’oscurità in cui non c’è nulla e finisce nell’oscurità in cui nulla è. Qui però sta la discordanza nell’ipotetico dialogo fra Byatt e Kermode. Perché c’è una distinzione da porre fra mito e fiaba, ribadisce Byatt in Ragnarök. Speculando sul desiderio del finale, la fiaba crea soddisfazione narrativa.

È una struttura assonante, e si dimostra insufficiente al cospetto delle grandi domande: anziché coagularsi attorno al «perché esiste qualcosa invece del nulla», persegue il suo disegno, «ineluttabile, gettando una luce vivida su alcune cose», e tacitamente lasciandone altre «in tenebre profonde». In un articolo comparso sul Guardian nel 2004, Byatt osservava come l’analisi della fiaba a opera di Propp censisca personaggi ed eventi tanto finiti quanto indefinitamente variabili. Mera grammatica dell’accadibile, caleidoscopio evanescente di possibilità, la fiaba si distingue così dal mito, che è invece, scrive Byatt in Ragnarök, «paura e pericolo, e cose fuori controllo», ed è fatto di «creature, storie, che abitano la mente. Non possono essere spiegati e non spiegano; non sono credenze né allegorie». La fiaba è racconto; il mito è testo. Per questo la bambina magra rifiuta quelle interpolazioni cristiane di Asgard e gli dèi in cui si narra di un dopo-fine: ciò che le serve è la vera Fine, «l’epilogo originario, le acque scure che sommergono tutto».

Nell’appendice critica Byatt formalizza esplicitamente questa opposizione: laddove le fiabe sono «storie che parlano di storie», ruotano cioè in maniera rassicurante sulla riconoscibilità degli schemi narrativi, i miti sono «insoddisfacenti, addirittura tormentosi», «sconcertano e ossessionano la mente di chi li incontra»; non disegnano forme di alcun tipo, sono «incontri con l’inconcepibile». Se quindi da un lato Ragnarök si configura, secondo i luoghi del Bildungsroman, come una sorta di genesi intellettuale/apocalittica dell’autrice – che a più riprese e in varie altre opere riconosce questo mito come il preferito della sua infanzia, e sovrappone dettagli relativi alla bambina magra con quelli della sua biografia – dall’altro si cimenta con un notevole arricchimento del mito originario. Sono splendidi, come sempre in Byatt, oltre che inediti nelle fonti scandinave (elencate nella bibliografia finale), i lunghi tratti descrittivi in cui, seguendo ritmi allitterativi come litanie, si snodano elenchi, formidabili per precisione e lirismo, di piante, fiori, uccelli, rocce, creature del mare; in cui si dice di Yggdrasil, il frassino che diede vita al mondo, del suo corrispettivo marino Rándrasill, del gigante Ymir e dei primi dèi assassini, di Odino e di Loki il dissimulatore, e dei figli di Loki, il lupo Fenrir, la serpentessa Jörmungandr e Hel, dea dei morti, e di Naglfar, la nave dell’Apocalisse, costruita con le unghie dei morti.

Quello di Byatt è un imponente lavoro sulla lingua – sul testo, appunto, sul come se del mito – mantenuto dalla traduzione italiana e avvalorato dalla scelta dell’autrice di conservare le grafie originali dei nomi, diverse a seconda dei miti a cui si fa riferimento, senza sovrascrivere la discordanza delle varie versioni.