Nick Hunt non teme le intemperie, sa affrontare la pioggia, le notti ghiacciate e il calore dei caminetti accesi nelle case di sconosciuti. È anche un formidabile ascoltatore di narrazioni altrui. Soprattutto, nutre con metodicità la sua mania: verificare di persona quei racconti, toccare i luoghi, «ritracciare» percorsi già narrati per registrarne i cambiamenti, le cose smarrite e quelle conquistate. E così quando s’imbatte nell’inglese Patrick Leigh Fermor, irriducibile viaggiatore che partì con gli scarponi chiodati nel 1933 per attraversare a piedi l’Europa alla volta di Istanbul, non ha più dubbi. Dovrà imbarcarsi anche lui in quella avventura. E lo farà, quasi ottant’anni dopo, nel 2011, esordendo poi nella narrativa di viaggio con il suo Camminando fra i boschi e l’acqua. Da Hoek van Holland al Corno d’Oro sulle tracce di Patrick Leigh Fermor (pubblicato originalmente dall’editore Nicholas Brealey e arrivato nel 2020 in Italia con Neri Pozza, pp. 365, euro 19, traduzione di Laura Prandino).
Questo anomalo scrittore e giornalista, che quando sta fermo vive a Bristol considerandosi sempre uno storyteller in potenza, lo avevamo incontrato mentre rincorreva tempeste e brezze marine (Dove soffiano i venti selvaggi, Neri Pozza), ma il cacciatore di folate celesti veniva in realtà dopo il camminatore delle foreste e tra impervi sentieri montani del Vecchio Continente.
Naturalmente, Hunt non si è mai arreso e sta lavorando alacremente per la prossima avventura. «Il mio nuovo diario di viaggio descriverà quattro ’paesaggi improbabili’ in Europa: una macchia di tundra artica in Scozia, la più vasta regione rimanente di foresta vergine in Polonia e Bielorussia, l’unico vero deserto d’Europa in Spagna e le steppe dell’Ungheria. Il libro sarà pubblicato in inglese, con il titolo Outlandish, nel 2021».

Nella storia letteraria e filosofica esistono varie tipologie di camminatori e viaggiatori. Come mai lei ha scelto di ripercorrere l’itinerario di Patrick Leigh Fermor?
Ho letto A Time of Gifts (in Italia Tempo di regali, Adelphi) quando avevo diciotto anni – il libro che racconta la storia della «camminata» di Leigh Fermor fino all’Ungheria. Ne ho ricavato subito una grande impressione, mi colpiva che avesse anche lui poco più di 18 anni quando intraprese il suo viaggio. Mi sono identificato con il suo desiderio di esplorazione e avventura: camminare è un modo semplice e democratico di muoversi in giro per il mondo. Poi è arrivata la lettura di Between the Woods and the Water (Fra i boschi e l’acqua, Adelphi) e l’idea di un’Europa antica e selvaggia che esisteva prima della seconda guerra mondiale, con gli aristocratici che abitavano nei castelli e i contadini che lavoravano i campi, ha esercitato su di me un forte fascino. Sembrava un’immagine lontanissima, ma allo stesso tempo molto vicina. Volevo scoprire cosa fosse cambiato dal 1934: quanto di quel mondo fosse scomparso e quanto invece fosse rimasto uguale. L’Europa si percepiva ancora come un luogo indomito e misterioso? Le persone erano ancora gentili e ospitali? Seguendo questi interrogativi, ho deciso di partire sulla scia di Fermor, anche se mi ci sono voluti altri dodici anni per indossare gli stivali e farlo davvero.

1933 – 2011: questo l’arco di tempo che ha separato le due «passeggiate». Qual è la prima cosa da rilevare, nella cornice dei rivolgimenti europei che si sono succeduti?
La seconda guerra mondiale ha rappresentato uno sconvolgimento apocalittico. Non solo per i danni provocati durante il conflitto – che ovviamente hanno cambiato il volto di tante città e paesi che ho attraversato – ma anche perché ha introdotto devastanti mutamenti che hanno messo fuori gioco antichi stili di vita: il comunismo nell’Europa orientale, il libero mercato del capitalismo e il consumismo nell’Europa occidentale, l’industrializzazione ovunque. Tutto ciò ha avuto un impatto sulle culture umane e, naturalmente, sull’ambiente. È come se la guerra fosse stata solo l’ouverture per le trasformazioni a venire.

Alla luce della pandemia e della chiusura dei confini (anche simbolicamente, con l’insegnamento della diffidenza), il suo viaggio oggi non sarebbe più possibile. Pensa che usciremo da questa traumatica esperienza molto diversi?
Le frontiere e i vari nazionalismi si sono decisamente rafforzati. Dai tempi della mia «camminata» abbiamo assistito ad almeno tre grandi chiusure: la crisi dei rifugiati, che in particolare ha serrato i confini in Ungheria; la Brexit, che rappresenta il rifiuto del principio della libertà di movimento; e ora la pandemia, che ha letteralmente reso illegale attraversare i confini o viaggiare. Nessuno sa quale potrà essere l’impatto a lungo termine di tutto ciò. È troppo presto per dirlo e stiamo vivendo una sorta di shock. Ma io coltivo la speranza che il desiderio umano di offrire ospitalità e il piacere della gentilezza non possano svanire. La comunanza è una caratteristica profondamente radicata degli esseri umani. In un lungo periodo, non potrà scomparire.

Esplorando, avrà certamente registrato radicali cambiamenti nei diversi habitat europei…
Molte delle stradine di campagna percorse da Leigh Fermor sono ora trafficate autostrade. Il calcestruzzo copre una vasta parte della superficie europea rispetto agli anni Trenta. Ci sono periferie dove un tempo c’erano i campi e dighe elettriche sul Danubio. Sì, l’erosione dell’habitat è stata enorme e neanche ci dice abbastanza sul vero declino della biodiversità negli uccelli, negli insetti e in altri animali, di cui gli scienziati cominciano a misurare l’entità. Allo stesso tempo, tuttavia, si sono manifestate altre tendenze: in gran parte dell’Europa orientale la natura si sta lentamente riprendendo i suoi spazi, mentre le persone lasciano la campagna e si trasferiscono nelle città. Gli alberi crescono di nuovo sui campi abbandonati. In Bulgaria ho sentito il richiamo degli sciacalli di notte, creature che hanno colonizzato intere zone dell’Europa meridionale e orientale negli ultimi cinquant’anni. Ai tempi di Leigh Fermor, non c’erano. Quindi, il quadro generale è più complicato da descrivere e non si può ricondurre a una semplice perdita.

Quale paese l’ha colpita di più per il modo di vivere e le abitudini dei suoi abitanti?
Fra tutti i paesi, la Romania è stato quello che ho amato di più. È un posto meraviglioso per un camminatore, la mobilità «trainata» dai cavalli ha l’effetto di rallentare tutto. Gli abitanti si prendono il loro tempo. Ho conosciuto persone incredibilmente calorose; appena ho attraversato il confine con l’Ungheria, mi sono rilassato. C’è una mentalità aperta, in parte grazie anche alla somiglianza della lingua con l’italiano, lo spagnolo, il francese… Un senso di internazionalismo, rurale e locale. È stata una grande scoperta e mi sono sentito a casa.

Come finanzia i suoi viaggi?
In parte attraverso gli anticipi dell’editore britannico Nicholas Brealey / John Murray e poi attraverso le sovvenzioni occasionali che ricevo da organizzazioni come la Society of Authors, che seguono imprese come la mia.