Il festival di Santarcangelo si avvia a festeggiare i cinquant’anni di vita, che cadranno del 2020. E a chi frequenta la cittadina romagnola da più decenni viene da interrogarsi su ciò che l’ha resa unica e soprattutto sulla continuità della sua storia. Perché passano le direzioni artistiche, questo è il secondo anno di Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino, e può farsi visibile una impronta femminile anche nell’amministrazione comunale oggi guidata dalla giovane Alice Parma. Ma ciò che persiste è soprattutto la misteriosa forza del luogo.

Col caldo soffocante dei suoi spazi e le fughe nei boschi, le irrinunciabili tagliatelle di Zaghini e le altrettanto inevitabili polemiche futili che l’accompagnano – quest’anno i corpi nudi esibiti dalla coreografa uruguayana Tamara Cubas, nemmeno fossimo tornati indietro appunto di cinquant’anni, alle azioni di Julian Beck e Judith Malina che si concludevano in un commissariato.
Persiste anche la scelta in favore di un’idea molto ampia della performatività, dalla danza alle arti visive. Senza farne un’ideologia. Alla pura parola teatrale rimanda ad esempio Scavi con cui Daria Deflorian e Antonio Tagliarini anticipano i temi del loro prossimo lavoro, Quasi niente, che debutterà a Roma in autunno.

Un titolo che evoca una sorta di prospezione geologica, una archeologia della visione che ha per terreno Deserto rosso di Antonioni e la sua protagonista Monica Vitti. E infatti dal gesto dell’attrice di sistemarsi continuamente i capelli muovono i tre interpreti in scena (insieme ai due artefici c’è Francesco Alberici) per giocare di sponda l’uno con l’altro affondando nel vissuto personale.

C’è l’immagine di un film di Antonioni anche al culmine di Panorama, ultima impegnativa produzione di Motus nata a New York grazie all’ospitalità del Cafè La MaMa, il teatro off-off fondato da Ellen Stewart, e con gli attori della Great Jones Repertory Company. Ecco Maria Schneider e Jack Nicholson in fuga in Professione reporter. Volgi le spalle a quel che hai davanti a te, dice lei. Mentre guarda la strada che si svolge diritta dietro la loro macchina. E viene in mente l’angelo della storia che avanza con il viso rivolto al passato di cui parlava Benjamin, spinto verso il futuro dal vento del progresso.

Non possono non guardare dietro di sé i sei interpreti che incrociano origini coreane vietnamite ispaniche turche e afroamericane. Un paradigma del melting-pot newyorkese, si sarebbe detto una volta. Ora tutto si è fatto più complicato. Chi sono io? si chiedono, mentre vengono a presentarsi uno alla volta davanti alla videocamera che ne proietta i volti sul fondale, uno schermo verde che diventa poi la base per fumettistiche avventure in chroma key. Ma non ci si aspetti una qualche variazione sul teatro della realtà, che anzi lo spettacolo vira verso un trip psichedelico, grazie anche a quelle immagini, fra uno strip dei vestiti da rifugiata e quello in stile burlesque, la jiggle dance e l’orgasmo raggiunto con un sacchetto di patatine da far esplodere.

Spettacolo difficile da definire o per dir meglio difficile da contenere in una definizione, questo di Enrico Casagrande e Daniela Niccolò. Qui sta anche il suo fascino. Potremmo azzardare che il panorama che ci mette di fronte è in realtà la perdita dell’orizzonte. Motus ci aveva regalato qualche tempo fa col bellissimo MDLSX di e con Silvia Calderoni (qui coinvolta in una scheggia dell’altro spettacolo sulla centrale piazza Ganganelli) lo spudorato viaggio alla conquista di un’identità che prescinda da stereotipi e pregiudizi. Qui quello stesso piano inclinato ci racconta quanto diverse possano essere le vie da percorrere.