Già a Cannes, Sundance, Annecy dove ha vinto quest’anno il Cristallo come miglior lungometraggio animato, Flee (Fuggire) del regista danese Jonas Poher Rasmussen è un documentario sull’esperienza da ragazzo rifugiato dell’accademico afgano Amin Nawabi (pseudonimo). Intervistato dal regista-amico che compare nel film, Amin rielabora il viaggio nella memoria, dall’Afghanistan alla Danimarca passando per la Russia. Passaggi duri, crudeli, pagati a caro prezzo da povere persone, dove a lucrare sono brutali trafficanti e poliziotti corrotti.
Il documentario animato aderisce alla narrazione e si attiene perlopiù a un disegno realista, concedendosi sfumature stilistiche di grigio nei momenti più evocativi e introspettivi e inserti filmati dal vero. In Usa sarà distribuito a novembre da Neon (Parasite, Titane) e quindi candidabile per l’Oscar, mentre in Italia lo distribuirà a febbraio I Wonder. Film di chiusura allo scorso Animaphix, sarà presentato al prossimo Imaginaria (Conversano, Bari, 23-28 agosto). Ci siamo confrontati con il regista.

Perché hai scelto l’animazione per documentare questa realtà?
Quasi tutta la storia è ambientata nel passato e volevo mostrare com’era la casa natia di Amin, l’Afghanistan negli anni 80 e Mosca nei 90. Ma soprattutto Amin voleva restare anonimo, per cui l’animazione è sembrato il modo perfetto per raccontare la storia dato che ci permetteva sia di mascherare la sua identità che di far rivivere i suoi ricordi.

Disegni senza volto in bianco e nero rievocano i ricordi dolorosi del passato. Come si rapporta alla storia la variazione di stile?
Flee è una storia di ricordi e trauma e l’animazione ci ha permesso di essere molto più espressivi visivamente di quanto avremmo potuto mai essere con una regolare macchina da presa. Ogni volta che Amin parla di qualcosa di traumatico o che ricorda con difficoltà, l’animazione si fa più grafica e semplice, raccontando la storia in modo più onesto e rispettoso dei suoi sentimenti.

In che modo sono funzionali alla storia le sequenze dal vero inserite?
Flee è essenzialmente un documentario, quindi mi è sembrato importante usare materiale di archivio per ricordare alle persone che questa storia è legata a eventi storici. Tutto quello che Amin attraversa è a causa di fatti accaduti nello stesso mondo in cui viviamo tutti. Non è una finzione. Credo che questa nozione crei un filo più robusto fra il protagonista e il pubblico. Abbiamo utilizzato l’archivio anche come ricerca per le sequenze animate in modo da mantenere un senso di autenticità per tutto il film.

Ci sono invece poche concessioni di ordine stilistico e estetico. Perché?
L’autenticità è davvero la chiave qui. Flee è un documentario e sentivo che stilizzare le immagini avrebbe creato una distanza fra la storia reale e il pubblico.

Come si può garantire l’effettiva veridicità? In che modo sei attendibile e responsabile?
Flee non è basata su una storia vera, è una storia vera. Tutto ciò che si vede nel film è davvero successo. Ma come si può garantire l’effettiva veridicità? Suppongo sia una domanda che si possa porre per qualsiasi lavoro artistico o giornalistico. Ma esiste poi l’effettiva veridicità? Nel momento in cui faccio una scelta cinematografica come regista, penso di interferire con «l’effettiva veridicità». Naturalmente ho fatto la mia ricerca per assicurarmi che la storia datami fosse corretta nei fatti, ma è certamente raccontata con la mia ottica.

Appari anche nel film mentre intervisti Amin. È per rafforzare la veridicità dell’esperienza?
Sì, è definitivamente un modo per mantenere l’autenticità. I modi in cui parliamo e ci sediamo sono assolutamente identici all’intervista «reale». Le voci che sentiamo nel film sono le vere voci da quelle interviste che sono davvero la prima volta che Amin racconta a qualcuno la sua storia di vita vissuta. L’unica differenza è nel modo in cui appariamo.

A un certo punto Amin deve inventare la storia della morte della sua intera famiglia, su cui singhiozza per davvero, «sorpreso di piangere per qualcosa che non è vera». Che rapporto vedi fra finzione e realtà?
Per me quella sequenza non parla di realtà contro finzione. Il fatto che sia sorpreso di piangere per una cosa non «vera» in quella situazione mi mostra che Amin ancora non ha fatto i conti con la sua storia, nemmeno in questo momento inoltrato della sua vita. Amin non capisce che non è quello che sta effettivamente dicendo che lo fa piangere, ma invece il fatto di avere mentito per salvarsi la vita. È la pressione e la paura di un quindicenne per la prima volta nella sua vita completamente da solo. La finzione è qualcosa che inventi, la realtà no. Quando realizzavo Flee, certamente ho scelto una trama fra tante e ho eliminato tante cose che altri avrebbero forse mantenuto. Ma questa storia si svolge per più di 35 anni, quindi si dovevano fare scelte e ho dato la mia interpretazione della sua storia. Ho naturalmente fatto ricorso alla mia scatola di attrezzi cinematografici per creare suspense e spinta, ma non ho dubbi, Flee è decisamente reale.

La questione afgana è affrontata anche in altri film animati quest’anno. In che modo ti ci sei rapportato?
Certo ho visto con grande interesse sia Breadwinner che Swallows of Kabul e sono bei film, ma sento che sono tematicamente distanti da Flee. Per me questa non è una storia sull’Afghanistan, ma sul sentirsi senza casa e in cerca di un posto dove puoi essere te stesso. Potrebbe accadere in qualsiasi posto del mondo.

L’omosessualità di Amin è mostrato in modo del tutto naturale, senza enfasi. È ancora argomento di grande dibattito l’omosessualità in Danimarca?
Sta migliorando, ma è ancora una grande questione in Danimarca. Davvero volevo che si percepisse la sessualità di Amin in modo naturale e come parte integrante della sua personalità come è nella nostra amicizia. Si rivelò a me quando avevo 17 anni (23 anni fa) e non è qualcosa a cui ci pensi tanto. Volevo che trasparisse all’inizio del film per poi problematizzarlo dopo quando parlavamo di come era essere un ragazzo musulmano gay in Afghanistan.

E le migrazioni e il traffico di esseri umani?
Sì, sono ancora questioni enormi. I rifugiati sono al secondo posto fra le preoccupazioni delle persone qui, dopo il clima.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando all’adattamento di una trilogia di romanzi grafici danese dell’autore Halfdan Pisket basata sulla vita di suo padre.