Il primo film di fantascienza di James Gray è bello. Non solo, come c’era da aspettarsi, per l’impressionante collezione di salvaschermi, vedute di pianeti, anelli, pulviscoli e luci cosmiche, luoghi comuni della fantascienza che il regista affronta senza inutili pudori, come un passaggio obbligato del genere, o meglio come uno degli ostacoli da sormontare per conquistare il cielo. È bello proprio per la determinazione con la quale si dirige con decisione verso tutto quello che noi umani, spettatori da oramai 120 anni, abbiamo già visto, provando infine e mostrando nel mentre che, nonostante tutto (attenzione, spoiler teorico), non c’è nessuna vita al di là del cinema: quello che abbiamo visto, è ancora tutto quello che c’è da vedere.

PER PROVARLO non poteva far altro che viaggiare per i sentieri più battuti, non solo della fantascienza, ma di tutto il cinema classico, e dimostrare sic itur che, proprio in quelle immagini che ormai possediamo intimamente, senza per forza sapere da dove vengono, se da Ford o da Spielberg, da Kubrick, o da Tarkovskij o da qualche altro eroe meno noto della galassia, proprio in quelle immagini ci sono cose che noi spettatori non possiamo nemmeno immaginare. Una carovana scivola lentamente al centro di una vallata, lasciando dietro di sé, sul fondo asciutto di un lago salato due tracce nere. Un gruppo di indiani si lancia all’assalto, invadendo lo spazio bianco, lanciando una sfida mortale ai viaggiatori del convoglio, e una teorica a John Ford che, trovando la soluzione tecnica, stabilisce una volta per tutte l’abc del decoupage. Nella sua versione lunare, Gray usa esattamente le stesse lettere ma reiscrive tutta la bruta violenza dell’inseguimento in una materia ovattata d’inaudita impressionante bellezza.

L’EROE STESSO, in un momento in cui è solo spettatore della scena, riflette a voce alta sul fatto che in fondo nulla sia cambiato dal tempo dei vecchi coloni e degli indiani, e che, dovunque andiamo, assistiamo alla ripetizione del vecchio mondo: «A papà non sarebbe piaciuto». A papà infatti piace il nuovo. Che papà sia un padre, il capitalismo o gli Studios di Hollywood poco importa. Davanti a tanta pompa riflessiva si potrebbe forse affogare, se non fosse per la virtù di quest’eroe filosofo, Roy Mcbride, incarnato da quel Brad di un Pitt con tale maestria che la maschera quasi scompare, lasciando a nudo il volto segnato d’un uomo maturo alle prese con i propri crucci più ordinari; e se di tanto in tanto la si nota, è solo perché, nel volo virtuosissimo, e forse fin troppo audace, della sua interpretazione, Pitt ha trovato il modo di far echeggiare nelle proprie smorfie una vibrazione infinitesimale di quelle di Tommy Lee Jones, ovvero del suo padre fittizio.

A queste altezze sublimi, c’è il tempo e il modo per un sorriso. Una delle cose più divertenti del film è l’idea di far girare tutto l’intrigo intorno al problema di sapere se si può far perdere le staffe a Brad Pitt, o meglio a Roy Mcbride, il quale è noto per avere un polso che non supera mai gli 80 battiti al minuto, nemmeno quando gli capita di cadere dal cielo, per esempio in seguito ad un’esplosione dell’antenna stratosferica dove lavora.

IL TUTTO in un mondo dove, ad ogni piè sospinto, per andare a letto o per accendere i motori di un razzo, viene richiesto di passare un controllo psicologico con battito cardiaco annesso – sorta di versione futuristica dell’etilometro all’avvio, o forse satira delle conversazioni di Gray con i propri produttori.
Insomma, è con un misto di stupore e di curiosità che si entra in questo viaggio cosmico. Stupore perché il nome di James Gray è associato al dramma e alla tragedia, due ingredienti con i quali è riuscito a ridare smalto alle notti del genere criminale e del romanzo sentimentale. Curiosità quindi nel vedere questo autore lanciarsi nel tentativo di rinnovare la fantascienza, per librarsi nello spazio o per cadere miseramente nel tentativo.

IL SUO EROE, lo abbiamo detto, comincia proprio da una caduta: come un Icaro qualunque che nella più classica delle nemesi non paga il proprio errore ma quello del padre, dal quale eredita l’incapacità a provare desiderio e emozione per il mondo che lo circonda (interpretato da Liv Taylor). Ora, per risollevarlo, Gray non inventa una macchina capace di realizzare tutti i desideri nascosti (come nel Pianeta proibito o in Solaris) oppure di reprimere quelli che non si possono esprimere (come in Stalker). Ci fa vedere che questa macchina esiste già, e il problema è semmai che abbiamo smesso di crederci per cercare altro. Certo, Gray intinge questa riflessione in un boccale di topici psicoanalitici ma che al tempo stesso non sono altro che un ennesimo passaggio obbligato del genere. La morale è tutta nel titolo, o meglio nel pezzo mancante dell’espressione latina che tutti conoscono.