1967, nella Swinging London di Blow-Up, delle minigonne di Twiggy, delle svolte lisergiche dei Beatles e dei Rolling Stones. Nel regno della finzione, Steve Shorter, pop-star che ha il volto diafano e angustiato di Paul Jones, è acclamato dalla folla in delirio al rientro da un fortunato tour negli Stati Uniti.

MA APPARE evidente fin dai primissimi frame che in Privilege, titolo nato dal talento visionario di Peter Watkins sull’onda del successo di The War Game e recentemente pubblicato in Home Video per la prima volta in Italia da Shockproof, l’atmosfera è tutt’altro che scanzonata. Le ragazze, per strada, premono sui «bobbies», piangono e si strappano i capelli isteriche al passaggio del cantante che avviene su un carro, mentre la sua figura si staglia ieratica come quella di un Cristo benedicente o di un qualsiasi leader di regime. Come se ci trovassimo di fronte a un Richard Lester sotto acido, in una versione allucinata e distopica dei film-omaggio ai Fab Four.

Una violenza sottile e pervasiva aleggia nell’aria, un’inquietudine plumbea che pare uscita dalle pagine di Bradbury o di Orwell, per certi versi simile a quella che viviamo nel presente, quando finalmente riusciamo a far prevalere la consapevolezza di essere oggetto di un controllo onnicomprensivo e capillare che si spinge fin dentro alle nostre case influenzandoci nei gusti, le abitudini, i desideri e gli orientamenti. Questo la dice lunga sulla lungimirante intuizione di Watkins, che pur immerso nel clima di piena euforia degli anni Sessanta, mentre oltreoceano si consuma l’estate dell’amore, sa guardare oltre, anticipando con spiazzante lucidità l’imminente declino e il passaggio alle luci cupe dei Seventies e dei decenni a seguire. In prima battuta Privilege potrebbe sembrare un film sul rock.

Ma è l’illusione di un attimo. Perché la musica, in realtà, interessa Watkins principalmente nella sua componente divistica e nelle ricadute del fenomeno sull’individuo e la società. L’idolo Steve Shorter, infatti, non è che un burattino schiacciato dagli ingranaggi del sistema, la principale vittima di un meccanismo spietato regolato dal business musicale da un lato, ma in particolare dalle alte sfere del Potere (lo Stato, la Chiesa) dove oscuri «influencers» ante litteram ne pianificano in anticipo ogni mossa, dagli abiti alle canzoni alle coreografie degli show, allo scopo di condizionare i comportamenti delle masse.

ERA DAGLI ANNI Ottanta che Privilege non si vedeva in Italia, dal suo passaggio in Rai durante un ciclo dedicato al regista britannico in prima serata (una cosa impensabile oggi). Si dice che in origine il film fosse nato da un’idea di Terence Stamp e del produttore John Heyman, sull’onda della notorietà giunta a Watkins dopo il Premio Oscar ottenuto dal suo The War Game, primo esempio di mockumentary in assoluto in cui si raccontano gli effetti di un ipotetico attacco nucleare al Regno Unito da parte dell’Unione Sovietica.

Privilege fu girato all’interno di un pacchetto di dodici titoli prodotti dalla Universal tra il 1965 e il 1967 (tra i quali anche Fahrenheit 451 di François Truffaut) e realizzati con il benefit di una discreta libertà formale e di contenuto concessa agli autori. La prima mondiale, il 27 aprile 1967 al Warner Theatre di Leicester Square a Londra, fu un incredibile fiasco.

IL FILM, iconoclasta e antigovernativo, decisamente troppo lontano dai gusti dell’epoca, fu accolto malissimo sia dalla critica che dal pubblico e subì in particolare l’attacco della Chiesa che arrivò a definirlo «immorale e anticristiano». Ostacolato con ogni possibile mezzo, Privilege sparì rapidamente dalla circolazione. Si trattava di un oggetto davvero troppo bizzarro per riuscire a incontrare sguardi benevoli, disposti a rinunciare al comfort di soluzioni indulgenti e consolatorie. Per dirla con le parole dello stesso regista «questo film non è né commedia né satira, un film realistico o non realistico, un documentario sociale o un film di finzione, è tutte queste cose insieme e molto di più riunite in un incubo che credo abbia rilevanza per ognuno al giorno d’oggi».

ESPRESSIONE di un cinema impegnato politicamente e socialmente, Privilege si pone in termini rivoluzionari non solo sul piano del contenuto, ma anche della forma: un film a soggetto girato come un documentario da guerrilla il cui stile è ispirato al documentario su Paul Anka Lonely Boy, ma richiamando anche in maniera esplicita elementi del formalismo russo già evidenti nei cortometraggi The Diary of an Unknown Soldier e The Forgotten Faces (inseriti tra i contenuti extra del dvd) e il cinema di propaganda della regista del Führer Leni Riefenstahl (Il trionfo della volontà). Rivisto alla luce del presente, Peter Watkins si conferma un autore scomodo, audacemente politico e coraggioso al limite dell’incoscienza, geniale nel riuscire a immaginare la realtà oltre i propri recinti. Privilege è un chiaro esempio di cinema sulle barricate, un vero e proprio anatema contro il conformismo. Un urlo disperato, tranciante e senza tempo, lanciato come una molotov contro il Potere e i suoi servi.