Per un regista che voglia mettere in scena il Trovatore di Verdi l’ambientazione novecentesca, possibilmente durante la guerra civile di Spagna, è una delle soluzioni più frequentate. Del resto l’astrusità della vicenda originale di Gutiérrez, pur asciugata dal libretto di Cammarano, non offre approdi sicuri in nessun caso. Nella produzione in scena all’Opera di Roma – in coproduzione con Amsterdam e Parigi, stasera ultima recita – Alex Olle’ della Fura del Baus, qui con Valentina Carrasco, sceglie di muovere i personaggi in un’epoca sospesa fra la Grande Guerra e il conflitto civile di Spagna.

Fosco e brutale come si conviene, il disegno registico è piuttosto tradizionale, fluido ma scarsamente avvincente, qui e là anche sporcato da inserti gratuiti, dal botto della fucilazione in scena alla brutalizzazione della donna gitana durante il racconto di Ferrando. Tuttavia è l’impianto scenografico di Alfons Flores a offrire un colpo d’ala allo spettacolo: tre file di grandi parallelepipedi mobili che fluttuano dall’alto al basso, ottimamente illuminate dal disegno luci di Urs Schoenenbaum, variano e rimodellano con notevole originalità ciascuna scena e i vari cambi, spesso a vista, dal cimitero al chiostro, dal palazzo al campo di battaglia alla prigione. Il quartetto vocale regge bene la prova, considerate le difficoltà odierne di radunare i fuoriclasse necessari per servire il titolo verdiano con piena soddisfazione.

In rilievo le voci femminili, in primo luogo la torrenziale Azucena di Ekaterina Semenchuk, capace anche di cantare piano – e benissimo – nel duetto del quarto atto, che conclude uccidendosi con la pistola sottratta al Conte. Gli ultimi due atti sono anche quelli in cui dà il meglio Tatiana Serjan, Leonora dal canto pieno, appassionato e coinvolgente, nonostante la dizione nebulosa. Sia il Manrico di Stefano Secco che il Conte di Luna di Simone Piazzola cantano con eleganza, Secco con qualche durezza negli acuti e Piazzola con ottimo accento e fiati lunghissimi, ma appaiono leggermente tesi in alcuni dei passaggi più accesi dell’opera. Solido e centrato il Ferrando di Carlo Cigni. Jader Bignamini ritrova solo in parte l’equilibrio che nella recente Traviata lo aveva messo in luce anche come concertatore: non aiutano gli strappi e gli scarti di tempo, che a tratti minano il dialogo fra palcoscenico e buca, forse reso più difficile dall’illuminazione verticale e dagli specchi che illusionisticamente cingono l’intera cena.

Tuttavia, nonostante qualche slittamento, coro e orchestra assecondano il direttore offrendo una prova positiva: le idee ci sono e a Bignamini non sfugge il disegno complessivo dell’opera. I tagli di tradizione sono aperti, evitati gli eccessi bandistici e le cadute di gusto: via il raddoppio tenorile sul “sei tu dal ciel disceso” nel finale del II atto, ma purtroppo taciute le ripetizioni di “madre infelice” prima del do – non scritto – della “Pira”. Il pubblico ha festeggiato gli interpreti con convinzione, anche se in parecchi contravvenivano impunemente all’obbligo di spegnere telefoni e suonerie durante lo spettacolo.