Il Tresor di Brunetto Latini è uno scrigno di gioielli spirituali, un abrégé dello scibile umano che va dalla storia universale alle scienze naturali, dal bestiario all’agricoltura. Con la silloge Tresor (prefazione di Giulia Depoli, Interno Poesia, pp. 144, euro 15) Giulia Martini, nelle vesti di Ser Brunetto, tesse un’originale ragnatela di citazioni dai primi documenti in volgare per dare vita a un impulso linguistico concreto e pragmatico, capace di lasciar intravedere «la natura miracolosa dell’atto notarile». Osserva Depoli nell’interessante introduzione: «Testi come il Placito Capuano, l’iscrizione nella catacomba di Commodilla e il Glossario di Monza costituiscono un atto fondativo della lingua e, con essa, di un’istanza di comunicazione che presuppone il riconoscimento della comunità consolidatasi intorno alla scrittura. Martini li recupera, inframezzandoli alla lingua d’uso attuale: quella parlata dall’Io poetico e da chi lo circonda».

DECISIVA APPARE la strategia compositiva del cut-up che fa del riuso lirico un groviglio di «significanze» (nell’accezione data da Julia Kristeva), cioè di pulsioni, increspature e incrementi del significato. In buona sostanza, quella di Martini è un découpage, un’operazione «decostruttiva» di matrice derridiana: disseminazione e rigenerazione del senso («semini semi nel campo semantico»). Il perché del riassemblaggio è tutto racchiuso in queste due terzine che hanno il sapore di una dichiarazione poetica: «Certo che parlo io, e questo è latino / e questa farina è del mio sacco, / ma il mulino appartiene a un altro. // Dove altro tempo c’era lo molino / sul guado che separa piana e bosco, / ci vado io, perché mi porta il cuore».

In virtù di un costante fraintendimento paronimico, dell’utilizzo di coppie minime (Coppie minime è anche il titolo del libro d’esordio, uscito sempre per Interno Poesia nel 2018), del rimando a ipotesti e versi singoli, Martini diviene il compilatore della totale esperienza, il notaio che realizza il poeticum tra privilegi e placiti, in un fervido linguaggio arcano, oscillante («giausirò di gioia», «beninanza», «fistinanza»).

MARTINI CONOSCE BENE le potenzialità – pressoché infinite – dell’allotropo (teisoiro, tresoro): le sfrutta sino all’ubriacatura per evidenziare la variegatezza dell’essere, la différance del tesoro interiore, di un’exotopia, un transito dell’io nel tu, approdo in un alchemico noi. «Sei sempre stata solo un documento, un atto patrimoniale in un registro, una dichiarazione di consistenza dei beni posseduti». Il grande antecedente di Tresor è, probabilmente, Salutz di Giovanni Giudici (1986). In entrambi i casi, i frammenti hanno la natura dell’omissione, dell’insanabile-ineluttabile crux desperationis: «A un’ora deserta come una cosa vietata / pensi a una donna che si chiama». Alla conclusione di questo irto viaggio formale c’è lo scavo dell’origine, il desiderio di comunione che annulla le distanze, l’incantamento del ragionar d’amore: «Mi vieni incontro con la prima alba / e giuri che non mi farai più guerra».