Fin dai tempi dei tempi l’essere umano è in lotta per la conquista di spazi e nutrimenti vitali per il mantenimento della (propria) specie, e sin dai tempi dei tempi quella lotta si esprime “anche” nel mondo del sonoro. L’edizione 2022 del “südtirol festival merano . meran“ comunica in un certo senso questo, dando largo spazio a solisti e direttori d’orchestra che fanno intravvedere presente, passato e futuro sulla base di spartiti anche ben noti, avendo dedicato il programma che dura quasi un mese (dal 23 agosto al 21 settembre) a molte giovani leve note e/o meno note nell’universo della musica classica a livello internazionale.

ALCUNI NOMI? Lo Swedish Chamber Orchestra con Martin Fröst all’apertura fino alla Mahler Chamber Orchestra con Leif Ove Andsnes al pianoforte per la chiusura, passando per Magdalena Kozena, mezzosoprano in duo col pianista Yefim Bronfman, o l’Ensemble Cordia con Stefano Veggetti per il Concerto di Brandeburgo di J.S. Bach e la Chamber Orchestra of Europe diretta dall’inglese Robin Ticciati.

Jenkins costruisce la sua elegia con mattoni presi in prestito dai vari Credo passando da un solenne inno ad Allah a un melodico Kyrie Eleyson corale

Due esempi per tutti sul piano della densità musicale suonata sulla base di partiture note sono Sir Karl Jenkins, la cui Messa per la pace è stata programmata non a caso dall’acuto direttore artistico del festival, Andreas Cappello, nella serata dell’11 settembre, e Joshua Bell, violinista e qui anche direttore dell’Academy of St. Martin in the Fields che spinge nell’ultraterreno la Settima sinfonia di Beethoven, sdoppiandosi continuamente tra chi suona e chi dirige.

IL COMPOSITORE di origine del Wales Jenkins è stato a Merano al contempo direttore d’orchestra aggiungendo quel tocco in più che solo un autore può fare al suo stesso “testo”. La partitura è stata aperta da un Cantato Domini, da lui ufficialmente dedicato a colei, The Queen, che l’aveva nominato Sir, morta il giorno precedente. Una serie di Hallelujah cantati dal Chamber Choir of Europe fecero da elegiaco inizio a ciò che Jenkins aveva intitolato The Armed Man e Mass for Peace (L’uomo armato e Massa per la pace). Dopo un minuto di silenzio in cui presenza/assenza quasi si specchiavano virtualmente, entrata l’Orchestra Haydan di Bolzano e di Trento, tamburi e trombe risuonano forti nell’aria per far (visionariamente) entrare in scena soldati ed eserciti, ricordandoci gli splendori delle ampie inquadrature del famoso Barry Lindon di Stanley Kubrick girato in cinemascope. I primi lutti sembrano musicalmente entrare coi bassi toni dell’entrata dei contrabbassi, mentre il Chamber Choir of Europe sembra fare da voce narrante fuori campo.

JENKINS costruisce la sua elegia con mattoni presi in prestito dai vari Credo passando da un solenne inno ad Allah a un melodico Kyrie Eleyson corale cui poco dopo entrano i vari strumenti dell’orchestra, come a voler riassumere i settant’anni di regno della Queen britannica? Da combattimenti vari si passa a un “safe me” espresso sonoramente con il clash dei dischi metallici, mentre i continui cambi di ritmo ci fanno comprendere che le note musicali “sparano” meglio dei cannoni, anche le gocce di pace sulla terra. Mentre un solenne Gloria innalza il ritmo di un Excelsius Dei, giunge un pacato Sanctus per riportare calma e quiete: il crescendo della vita, in ogni momento in lotta con(tro) la morte, conducendo il tutto verso un sontuoso détournement sonoro in cui l’accidia metallica dei piatti rappresenta (a nostro avviso) l’esplosione del peggio che potrebbe capitare: una bomba o centrale nucleare. Questo chaos di onde sonore riporta una sorta di quiete dopo la tempesta, una “quiete ondosa” che galleggia come l’inesorabile ripetitività dell’ondeggiar del mare con un orizzonte sereno sullo sfondo. Infatti, l’illuminazione sullo sfondo del palco è di un colore soltanto, perché la miglior scelta tra guerra e pace è pur sempre la Pace.