Se c’è un grado zero dell’autofinzione, che pretenda di aderire all’io autoriale e alla realtà senz’altro travaso che non sia quello irriducibile del linguaggio, lo ha tentato con vorace titanismo Lorenza Ronzano ne Il buon auspicio, che esce ora postumo per Miraggi (pp. 541, euro 26).

L’AUTRICE, alessandrina, scomparsa un anno e mezzo fa a soli quarantaquattro anni, aveva dato prova di sé nel romanzo Zolfo (Italic 2014), che già attingeva a materiali autobiografici, e nel saggio La variabile umana (Eleuthera 2019), in cui riferiva di incontri non clinici con pazienti psichiatrici, orientati cioè a restituirne storia e sofferenza al di là di terapie e medicalizzazioni.
Due anni fa poi, già ammalata, Ronzano aveva inviato all’editore torinese questo monstrum romanzesco che altri avevano rifiutato nonostante la convinta intercessione di Antonio Moresco. Del che ovviamente si rende conto anche in queste pagine, ma è il meno: quel che l’autrice lascia di sé è un autoritratto di sorprendente forza e lucidità, quello di una donna che avanza temeraria fra nobiltà di spirito e abiezione – se abiecta è, stando all’etimo, colei che è rigettata: «Io posso assumere su di me tutto, posso assumere il massimo disprezzo e il massimo elogio, il massimo dei voti, la più vergognosa condanna», scrive nel secondo dei tre «volumi» che compongono l’opera. E l’occhio altrui che qui emerge, lo sguardo giudicante più cercato che temuto, tradisce un deficit di riconoscimento che affonda in un passato familiare, materno soprattutto, di cui si riferisce quasi marginalmente, ma che dà ben chiara l’idea di una suppurazione mai sanata. La figura del padre, invece, è presente eccome, oscena e morente, e determina quel poco, pochissimo di trama, sempre sia lecito chiamarla così.

IL REGISTRO dominante del libro è quello diaristico, per cui Lorenza accoglie brani di una quotidianità brada, sempre però attingendovi spunti di autocoscienza o di anamnesi esistenziale. Spesso è in compagnia dell’amico e alter ego Lorenzo, «depositario di identità», istanza coesiva ma anche oggetto impossibile del desiderio, sempre pronto a ritrarsi «come le forme muliebri del diavolo svaporano di fronte al pene eretto dei santi caduti in tentazione». In compenso vi è fra i due una condivisione di copule per procura, con partner più o meno occasionali, nonché un dialogo incessante nel quale, volente o nolente, la scrittrice impiega con molto mestiere i propri artifici. Lorenza poi ha pure una figlia, che si chiama come lei, e c’è un uomo che ne è il padre, ma restano entrambi in ombra rispetto alle figure di amiche e spasimanti che gravitano intorno alla protagonista. Il cui desiderio, in fin dei conti, si realizza nella scrittura: nella prima parte si sprecano i tentativi di definizione che lei stessa fa del proprio work in progress, da «stenografia del reale» a «calco dell’esistenza», salvo poi darcene la miglior metafora nella lettera all’editor che chiude il volume.

DOVE L’IMPETO programmatico si placa torna invece a farsi largo il cumulo esistenziale con referti di incontri carnali, riflessioni sul corpo, resoconti di sogni, sedute al bar o al ristorante, nonché nella parte finale un ménage con Houellebecq che la narratrice aveva preannunciato fin dalla premessa in terza persona, definendolo «delirante». Si fa strada altresì, a intermittenza, una critica sociale in cui confluiscono anche diverse biografie di pazienti, con deduzioni sul psichiatrico che ne additano il contesto, per cui il «malato» è colui che «testimonia un’emergenza e denuncia un disturbo collettivo attraverso il proprio vissuto». Chi poi tra i personaggi ha lo stigma del marginale, come la libertaria Gina Sori, svetta per dignità e non si dimentica.
In oltre cinquecento pagine siffatte non mancano momenti di stanca o cedimenti stilistici, ma sono compensati dallo scavo che Ronzano ha osato su di sé, sulle proprie miserie e le proprie manie, erotiche o di grandezza: non manca nulla a farla invisa allo sguardo moraleggiante, ma sempre ne è attestata la pena di fondo, come anche un nucleo di onestà inscalfibile. E se verso la fine sembra un po’ mollare il colpo, è solo per una diversa resa dei conti cui la vita la costringe anzitempo.