Majed e Ghassan siedono a gambe incrociate sopra il tappeto al centro della stanza: fuori Gaza City si gode le prime ore calde del pomeriggio. Poche auto per strada, manca il carburante e il tradizionale caos della Striscia sembra affievolito. Dalla finestra si vedono il porto e le barche azzurre dei pescatori ormeggiate in attesa di una nuova alba di lavoro.

Oggi quel tappeto è teatro di un corso di clownterapia. Seduti in cerchio, i ragazzi si battezzano, ognuno con il suo nome clown. Per due ore parlano, si raccontano, giocano, si muovono buffi nella stanza. C’è da tirare fuori il personaggio, il clown che tutti hanno dentro, che sia il Bianco o l’Augusto, che sia il saggio o l’imbranato. L’obiettivo è chiaro: Majed e Ghassan fanno pratica per portare sorrisi ai bambini gazawi degli ospedali pediatrici Al Nasser e Abdel Aziz Rantisi. E per il loro sogno: aprire la prima scuola di circo della Striscia. I primi passi già sono stati compiuti: un centro per bambini a Beit Lahiya, confine nord di Gaza, lungo la buffer zone, zona cuscinetto unilateralmente dichiarata da Israele e quasi impraticabile per la popolazione gazawi.

L’idea della scuola di circo è nata tre anni fa, tra l’operazione Piombo Fuso e l’offensiva Colonna di Difesa. In mezzo Majed e Ghassan, poco più che ventenni, si sono infilati il naso rosso e si sono lanciati tra clave, palline e monocicli: «Abbiamo cominciato nel marzo 2011 con un training circense al centro palestinese Al Qattan – spiega ad Alias Majed – Subito dopo il corso abbiamo iniziato a lavorare con i bambini. E non abbiamo più smesso». Dietro, l’esperienza accumulata quando erano solo due adolescenti: vestiti da clown, piombavano in feste di compleanno e, senza strumenti tra le mani, regalavano ai bambini di Gaza tante risate.

«I bambini adorano i corsi di clowneria, giocoleria e acrobatica – continua Majed – Prima il circo lo vedevano solo in tv e ora scoprono di saperlo mettere in pratica, di saper comporre una piramide umana o far girare in aria tre palline. I momenti più belli sono gli spettacoli. Li mettono in piedi da soli per la loro comunità. In poco tempo hanno fatto del circo una parte importante della loro vita: con l’arte circense, sono in grado di tirare fuori le paure, le emozioni e, perché no, i traumi che subiscono vivendo nella Striscia. Per questo le loro famiglie li sostengono e li seguono: il circo è diventato uno strumento di analisi e rimozione dei traumi».

Majed e Ghassan ridono e si mettono in posa davanti al quadro di un pagliaccio. Prendono in giro la nostra macchina fotografica («Qualche settimana fa è venuta Al Jazeera, non c’è proprio paragone»). Poi riprendono a raccontare della loro creatura: «La clowneria aiuta i bambini a stare meglio, fisicamente e psicologicamente – aggiunge Ghassan – Come? L’acrobatica, ad esempio: gli esercizi permettono di controllare il proprio corpo, di saperlo gestire, di conoscerlo in profondità. Questo regala ai bambini maggiore fiducia in se stessi, quella fiducia che bombe e assedio tentano di scalfire. La giocoleria, invece, tira fuori la loro creatività, li stimola e li fa uscire dalla noia quotidiana in un luogo, Gaza, dove le possibilità di formazione sono poche».

«Alla fine giocolano con tutto, con i limoni, con i pomodori. Il circo non vuole cancellare la realtà di tutti i giorni, non vuole creare uno spazio ameno e separato dal resto, non vuole far loro dimenticare dove vivono e perché. Al contrario, è lo strumento per affrontare tale realtà, per non farsi schiacciare dal dramma quotidiano e dalla depressione».

Camminando sui trampoli, lanciando in aria le clave, colorandosi il viso e pedalando su un monociclo, i bambini gazawi si riappropriano della loro infanzia, dei loro spazi e delle loro capacità, messe in pericolo dai traumi subiti nella perdita di amici e parenti, tra le macerie della casa distrutta dall’aviazione israeliana o dal buio che avvolge la notte senza elettricità. «Con il circo ci si libera dall’aggressività, le energie negative vengono catalizzate in attività positive. La violenza accumulata a causa del conflitto viene trasformata e il bambino riesce a parlare dei suoi sentimenti e delle sue paure all’interno del gruppo: esternalizza le emozioni e scopre di condividerle con i compagni, il processo diviene collettivo».

«Non siamo psicologi – riprende Majed – Non siamo in grado di operare con un intervento diretto. Quello che facciamo è farli giocare: lavoriamo sulla fiducia e sul rafforzamento delle abilità del bambino che capisce di saper fare, di saper costruire, di saper gestire se stesso e il mondo intorno».

Un salto, un’acrobazia, una clava lanciata in aria e ripresa al volo. Basta poco. E magari quella porta colorata del centro di Beit Lahiya, la porta del circo, si schiuderà sul mondo fuori, luogo proibito e lontano per la quasi totalità della popolazione gazawi. Dal 14 al 23 settembre, nell’ambito del progetto «Gaza Pop Up», finanziato dalla Ue, alcuni ragazzi della scuola di circo saranno a Palermo. Una mostra fotografica (alcune delle foto sono quelle pubblicate su queste pagine) accompagnerà lo scambio culturale organizzato dall’ong Ciss-Cooperazione Internazionale Sud Sud e dal Centro Italiano di scambio culturale VIK. Un’iniziativa per favorire il dialogo interculturale tra giovani gazawi e italiani. Appuntamento in Sicilia con il piccolo circo di Gaza.