Periodicamente, al verificarsi di un disastro ambientale, alla scoperta della tossicità di una nuova sostanza sintetica, al peggioramento dei parametri di qualità dell’aria o delle acque si accende l’attenzione sul rapporto tra industrializzazione e preservazione delle funzioni vitali naturali, salute delle persone compresa.

Quando gli impatti sugli ecosistemi raggiungono livelli così alti e ubiquitari come quelli attuali (pensiamo ai gas climalteranti o alle microplastiche trovate fin nella placenta dei mammiferi, specie umana compresa) allora evidentemente non si tratta solo di incidenti di percorso lungo la strada dello sviluppo delle forze produttive, o di defaillance della conoscenza scientifica, o di un eccesso di avidità di qualche azienda che mira al «profitto ad ogni costo», ma di un sistema di produzione paleotecnico, termoindustriale fossile andato fuori controllo.

È QUANTO SOSTENGONO nella loro ricerca Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti (Primavera ecologica mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Jaca Book, pp 185, euro 18). Per sconfiggerlo occorre quindi indagarne i meccanismi, capirne le logiche sistemiche che intrecciano economia, tecnoscienza, istituzioni politiche e psicologia sociale. È questo il progetto di lavoro che vuole«tenere assieme società e natura, tecnologia ed ecologia», che da vent’anni persegue la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia raccogliendo materiali, archiviando i fondi di alcuni tra gli ambientalisti e le ambientaliste più importanti (tra cui Laura Conti, Enzo Tiezzi e Nadia Marchettini, Dario Paccino, Giorgio Nebbia), allestendo un Museo dell’industria e del lavoro e pubblicando volumi di storia dell’industrializzazione e delle lotte sulla salute e l’ambiente.

Ora il direttore della Fondazione, lo storico Pier Paolo Poggio, e uno dei principali collaboratori, Marino Ruzzenenti, ricostruiscono cinquant’anni di storia del conflitto tra industria e ambiente a partire dalla «primavera ecologica» (la metafora è di Giorgio Nebbia) degli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta dello scorso secolo. Ogni periodizzazione – si sa – è arbitraria, ma ciò che accadde allora in termini di presa di coscienza del fenomeno che oggi chiamiamo «crisi ecologica» fu davvero definitivo.

TUTTO CIÒ CHE OGGI constatiamo amaramente sotto l’effetto boomerang delle retroazioni negative innescate dalle perturbazioni arrecate all’ecosfera fu allora analizzato e previsto. Rachel Carson, Lewis Munford, Hans Jonas, Aurelio Peccei, Barry Commoner, Kennet Boulding, Georescu-Roegen e i nostri Virginio Bettini e Giorgio Nebbia (ambedue maestri dell’ambientalismo, scomparsi nel giro di un anno) sono le principali figure – il cui lavoro viene ricordato nel volume – che hanno imposto l’ecologia come sapere transdisciplinare da porre al centro di ogni decisione collettiva, economica e politica. Inascoltati, certo. Tragicamente inascoltati, in generale, ma in Italia in modo particolare. Ed è qui, dal cercare di capire le ragioni di un tale comportamento politico «autodistruttivo» (scriverà papa Bergoglio nella Laudato si’) che i nostri autori invitano ad indagare.

Non tutto si può spiegare con l’«arretratezza» iniziale e con l’accelerazione forzata della trasformazione del modello economico nel secondo dopoguerra. In realtà la storia industriale del nostro paese è stata costellata da casi di assoluta eccellenza. Pensiamo al tessile, per non fare il solito esempio dell’Olivetti. Forse la condanna dell’Italia è venuta paradossalmente dai successi ottenuti dall’Eni di Enrico Mattei nell’approvvigionamento a buon mercato del petrolio arabo. Così, fino allo shock petrolifero, l’Italia «diventa una delle più importanti piattaforme di impianti di raffinazione e della petrolchimica». Con quel che ne consegue, anche per la siderurgia.
Sul fronte ambientale l’evento rivelatore del fallimento del modello industriale fu l’esplosione dell’Icmesa di Seveso (1976). Ma il cumulo delle macerie lasciato dall’industrializzazione è ben disseminato in ogni angolo del paese. Gli autori ne raccontano i casi più dolorosi. La loro tremenda eredità è documentata dalle (poche) indagini epidemiologiche portate a termine sulle «malattie professionali» – una «pandemia silenziosa» è stata definita – (in realtà solo per il mesotelioma provocato dall’amianto e per il cloruro di vinile monomero si è giunti a superare nei tribunali la dimostrazione del «nesso causale») e nella diffusione di un incredibile numero di siti inquinati ancora da bonificare: 57 di competenza nazionale e ben 15.122 «scaricati» alle Regioni.

SONO STATI TROPPI, prolungati e pesanti i danni provocati dall’industrializzazione scriteriata perché la «razza padrona» e predatrice alla guida del sistema industriale non avesse potuto contare sulla complicità delle istituzioni (politiche e scientifiche), persino su un certo consenso sociale di una popolazione ammaliata del consumismo e su una colpevole sottovalutazione del movimento sindacale, imbrigliato dal produttivismo. Tanto che Poggio e Ruzzenenti parlano di «autocolonizzazione» del territorio e di «servitù volontaria» ai voleri delle imprese.

Gli autori si soffermano sulle clamorose lacune della legislazione e sulla «debolezza del diritto ambientale». Infatti, il nostro paese è più volte incorso nelle sanzioni della Ue. Ma la tesi che Poggio e Ruzzenenti invitano a considerare, anche in chiave attuale, è il mancato incontro tra le lotte dei lavoratori organizzati e i movimenti ecologisti. All’inizio della «primavera ecologista» non era così. Il «modello operaio» (Giulio Maccacarro, Luigi Marra, Giovanni Berlinguer, Medicina democratica e una schiera di medici e di epidemiologi «di parte») nato nelle fabbriche a difesa della salute e per la sicurezza, contro la nocività dentro e fuori i luoghi di lavoro, si fondava sulla prevenzione primaria. Vale a dire sulla eliminazione a monte delle cause di rischio. Una impostazione che informò la riforma sociosanitaria del 1978 (legge 833) e creò i servizi di igiene pubblica, di medicina del lavoro, scolastica e territoriale. Poi il vento neoliberale ha separato «produttori» (direbbe Bruno Trentin) e le comunità locali degli abitanti (dice Albero Magnaghi), indebolendo gli uni e gli altri, «i due movimenti, ecologista ed operaio». Scrivono gli autori: «È fin troppo evidente che crisi ecologica e crisi sociale hanno la stessa radice e possono trovare ragione in un’unica progettualità».

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SCHEDA. La nuova collana delle Edizioni Ambiente

Le Edizioni Ambiente hanno di recente inaugurato una nuova collana editoriale dedicata alla esplorazione del rapporto tra specie umana e mondo vivente. Si chiama «Simbiosi» perché è sulla perdita e frattura di connessione profonda che muovono le indagini dei saggi presenti; con prospettiva multidisciplinare, gli approcci vanno appunto dalle scienze cognitive all’antropologia, dalla biologia alla filosofia, dalle discipline economiche a quelle ecologiche. Dalle malattie autoimmuni al rispetto delle biodiversità e i cambiamenti climatici, i primi tre titoli della collana sono saggi articolati che toccano punti molto diversi tra loro: «La specie solitaria. Perché abbiamo bisogno della natura», di Lucy Jones; «L’anima animale. Come il rapporto con gli animali può trasformare le nostre vite e salvare le loro», di Richard Louv; «Strategie della natura. Come la saggezza degli alberi rafforza la nostra vita», di Erwin Thoma.