C’è un’immagine tra le migliaia che documentano la vita e le azioni di Joseph Beuys, più indimenticabile di ogni altra. È quella scattata a Napoli, nella galleria di Lucio Amelio, il 17 aprile 1981. Vediamo l’artista, appartato e rannicchiato sotto uno dei tavoli da lavoro che aveva raccolto nelle zone colpite dal terremoto dell’Irpinia. Con matite di diversi colori stava tracciando su un rotolo di carta per elettrocardiogrammi lungo ben 34 metri, il «diagramma terremoto»: come un sismografo umano, voleva visualizzare la possibile trasformazione positiva di quella componente catastrofica che aveva travolto il Mezzogiorno italiano.

NELLA SUA AZIONE era implicita l’accusa alle inadempienze di una politica che aveva reso così vulnerabile quel pezzo d’Italia da lui tanto amato, ma da artista sentiva di dover andare oltre: cogliere il potenziale esplosivo del terremoto per attivare un salto di coscienza collettiva. L’energia sprigionata dalla terra non andava demonizzata ma trasformata in energia creativa che mettesse in movimento le persone.
C’è tutto Beuys in quell’azione. L’opera è un objet trouvé che risente di tutta la fragilità e la precarietà di quella realtà ferita (uno dei tavoli era in bilico, appoggiato su barattoli di vetro). Il titolo Terremoto in palazzo richiamava la categoria pasoliniana del potere, ma con l’ansia di reimpossessarsene. «Quel palazzo che dovremo prima conquistare e poi abitare in modo degno», avrebbe detto nell’ultima intervista rilasciata a Michele Buonomo. L’uomo sotto il tavolo è poi anche l’anti star, l’artista sceso dal piedistallo che dialoga, cerca ascolto e trova ascolto.
Fa perciò un po’ sorridere l’idea che, nel 1961, al suo primo incarico all’Accademia di Düsseldorf a Joseph Beuys fosse stata assegnata la cattedra di «Scultura monumentale». È tra quelle aule che aveva avuto tra i primi allievi Gerhard Richter, transfuga dalla Germania Est: la situazione è ben ricostruita nel film Opera senza autore di von Donnersmarck. «Le cose iniziano ad andare male quando qualcuno va a comprare un telaio e una tela», era uno dei leit motiv del Beuys insegnante. Un avvertimento decisivo per quell’allievo che per ricominciare a dipingere dovette passare attraverso un vero azzeramento delle proprie certezze e competenze.
In realtà né «scultura», né «monumentale» sono fuori luogo rispetto a Beuys. Semmai si dilata e muta radicalmente l’accezione di quei due termini. Per quanto riguarda «scultura» tutta l’opera dell’artista si configura come «soziale Plastik», secondo la sua stessa definizione.

«L’EVOLUZIONE va dall’arte moderna – cioè dall’arte tradizionale perché io considero tradizionale anche l’arte moderna – all’arte antropologica, e in quel contesto si realizza l’arte sociale: la società come opera d’arte», aveva detto Beuys nel bellissimo dialogo con Michael Ende raccolto in Arte e politica una discussione (Guanda, 1994). Scultura è quindi un lavoro di «configurazione del corpo sociale come grande opera d’arte».
L’artista Joseph Beuys lavora a liberare l’energia artistica che è di ogni persona; la sua «scultura» prende la forma del cambiamento delle persone spinte a sperimentare un livello più alto di libertà.
Quando l’attitudine diventa forma era il titolo della rivoluzionaria mostra bernese curata da Harald Szeemann nel 1969. In Beuys, evidentemente tra i protagonisti dell’esposizione, quell’accezione di attitudine travalicava l’orizzonte personale e si concepiva come tensione verso un cambio di status collettivo. L’arte rompeva la «cornice», travalicava nel corpo sociale: in questo senso l’accezione «monumentale» trova una giustificazione.

È «MONUMENTALE» l’obiettivo che Beuys assegna alla arte rinnovata. Aveva dichiarato le sue «ambizioni» già nel 1972, quando, sempre a Napoli e sempre da Lucio Amelio, aveva presentato la grande foto-autoritratto La rivoluzione siamo noi, scattata a Villa Orlandi ad Anacapri. È un Beuys spavaldo che ci viene incontro con stivaloni, cappello di feltro in testa, un giubbotto chiaro e il suo classico borsello a tracolla. La rivoluzione non è più un progetto, un obiettivo ma un processo messo in atto e che sta irrompendo nel presente. Rivoluzione è infatti sinonimo di resurrezione, una definizione a cui Beuys, nato da famiglia cattolica, ricorre spesso: «È il principio della resurrezione: trasformare la vecchia figura che muore ed è irrigidita in una figura viva, pulsante, che stimola la vita, l’anima, lo spirito».

IN QUESTO PROCESSO di rigenerazione sociale, la natura fa da maestra e indica la strada: «Dico che l’albero è anche un segnale della trasformazione della società. È un segno che dimostra che la società deve essere elevata a un nuovo, terzo livello, anche secondo i punti di vista organici, senza alcuna ideologia, e soprattutto al di là di capitalismo e comunismo».
La forza di Beuys è quella di ricondurre tutta questa prospettiva epocale a pratiche di estrema concretezza ed esemplarità, che lo proteggono dal rischio di deviare nell’utopia. Il caso più emblematico e celebre è quello delle 7.000 querce, l’opera con la quale si era presentato alla settima edizione di Documenta nel 1982. Aveva invaso la piazza davanti al Fridericianum, epicentro della grande manifestazione di Kassel, con 7.000 lastre di basalto, adottabili da chiunque volesse: con i soldi ricavati furono piantate negli anni altrettante querce nei dintorni della città tedesca, ciascuna segnalata dalla presenza di una delle lastre.

ERA PARTE del grande progetto Difesa della natura che ha occupato l’artista nell’ultimo periodo della sua vita. Anche in questo caso l’Italia è stato lo scenario privilegiato, grazie al rapporto con Buby Durini e Lucrezia De Domizio Durini. Proprio a Bolognano, nel cuore dell’Abruzzo, nella tenuta dei baroni Durini, Beuys aveva trovato le grandi vasche di decantazione dell’olio che trasformerà in una delle sue installazioni più celebri, realizzata due anni prima della morte, nel 1984. Cinque vasche antiche di tre secoli, tutte scavate a mano nella pietra, che Beuys aveva sigillato con una lastra di arenaria, tenuta sempre bagnata con l’olio. Se le vasche inevitabilmente richiamano l’immagine dei sepolcri, la pietra unta diffonde un profumo e dei cromatismi cangianti che restituiscono l’esperienza di un ciclo di vita che continua. È un’opera rituale, dove quelle pietre sempre vive, riscattano la squadratura brutalmente risolutiva delle vasche.
Nella sala del Kunstmuseum di Zurigo, dove Olivestone è conservata per donazione di Lucrezia Durini, l’opera è accompagnata da una piccola tavola quattrocentesca con una Deposizione nel sepolcro: un’associazione che rimanda a quel binomio caro a Beuys, «rivoluzione / resurrezione».

 

SCHEDA

DA Milano a Napoli a Sky Arte: è festa per lo sciamano

Per il centenario di Joseph Beuys, il Teatro Out Off di Milano presenta due iniziative: da oggi al 15 maggio 5 serate live streaming sui canali social, performance, incontri, letture, proiezioni.A curare il programma, ci sono Manuela Gandini, critica d’arte e docente alla Naba, e Susanna Schoenberg filmmaker, performer e docente all’Accademia di Düsseldorf. Sempre da oggi (fino al 19 dicembre) si terrà nei locali dell’Out Off la mostra Der Fehler fängt schon an, wenn einer sich anschickt Keilrahmen und Leinwand zu kaufen a cura di Patrizio Peterlini, selezione di edizioni e poster provenienti dalla Collezione Luigi Bonotto. Al sud, presso Casa Morra, invece, inaugura la rassegna Beuys e Napoli a cura di Giuseppe Morra, che raccoglie l’eredità culturale dai soggiorni dell’artista nella città partenopea e in Italia tra il 1971 e il 1985. Saranno poi proiettati cinque film negli spazi degli Archivi Mario Franco: a lui si deve la più completa documentazione filmica della collaborazione tra Lucio Amelio e Beuys a partire dalla prima mostra La rivoluzione siamo noi (1971) alla Modern Art Agency. Negli spazi della Fondazione sarà possibile vedere anche una serie fotografica di Gerardo Di Fiore che testimonia l’incursione di Beuys nel contesto dell’azione Hic Sunt Leones (1972) del collettivo Galleria Inesistente, una selezione di multipli e un focus fotografico di Vettor Pisani sul suo contributo a Documenta 5 (1972), dove per cento giorni l’artista allestì l’ufficio dell’«Organizzazione per la democrazia diretta tramite referendum».
Dal 12 al 16 maggio, in streaming anche la rassegna di documentari su Beuys (online.artecinema.com). Ci sarà poi la selezione di film curata da Laura Trisorio (con Goethe-Institut), che propone tra gli altri, Joseph Beuys: I Like America and America Likes Me, il corto di Helmut Wietz che ripercorre i tre giorni in cui a NY nel 1974 Beuys rimase chiuso in una stanza con un coyote.
Su Sky arte sarà trasmesso domani il docufilm (ore 21.15) sulla vita dell’artista: Beuys di Andres Veiel (anche on demand e in streaming su Now). Il regista, che presentò in gara il film alla 67/a Berlinale (https://cms.ilmanifesto.it/beuys-il-gesto-politico-dello-sciamano/), visionò 300 ore di video, un numero impressionante di materiale audio e ebbe accesso a circa 20mila immagini di 20 diversi fotografi che avevano ripreso Beuys in azione.