Un provvedimento iniquo si è di recente abbattuto sulle biblioteche e sugli archivi italiani. O forse sarebbe meglio precisare che un decreto legge che avrebbe potuto agevolare il lavoro di tanti e tante che frequentano biblioteche e archivi per ragioni inerenti la ricerca era sì nato sotto i migliori auspici ma poco più di un mese dopo corretto e reso storto da un emendamento davvero sorprendente.

All’articolo 12, comma 3 del decreto legge «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo» meglio conosciuto come «Art Bonus» – entrato in vigore il primo giugno 2014 – veniva infatti sancita la liberalizzazione delle riproduzioni di tutti i beni culturali, quindi anche manoscritti e documenti d’archivio. Peccato che il decreto legge convertito nella legge numero 106 del 29 luglio 2014 preveda un emendamento restrittivo che disattende il principio originario in capo alla riproduzione di beni archivistici e bibliografici – documenti di archivio, codici manoscritti e volumi a stampa non più tutelati dal diritto di autore. Si ritorna quindi all’annosa questione: o ci si reca in istituti che permettono agli e alle utenti di fotografare documenti antichi o si incappa in istituti che ne proibiscono la riproduzione con mezzo proprio. Nonostante i distinguo, in entrambi i casi non si accede liberamente ma c’è un costo preciso, nel primo variabile a seconda del faldone, del fascicolo o del singolo scatto e nel secondo per il servizio di ditte private che abbiano ottenuto l’appalto esclusivo. Insomma, comunque vada si paga.

Come scrivono i promotori del movimento «Fotografie libere per i beni culturali» (http://fotoliberebbcc.wordpress.com), inaugurato alla fine dell’iter legislativo sopra descritto e che ha all’attivo una petizione che propone la libera riproduzione in archivi e biblioteche – firmata da quasi quattromila tra uomini e donne impegnati/e nella ricerca – siamo in presenza di un paradosso: mentre nei musei è possibile fotografare liberamente collezioni di stampe o disegni antichi – immaginiamoci al Gabinetto Stampe e Disegni degli Uffizi ma anche al Correr di Venezia o ancora al Museo dell’Accademia linguistica di Belle Arti di Genova -, è invece proibito fotografare fondi o codici simili in una biblioteca o in un archivio perché questi ultimi risultano classificati come beni archivistici o bibliografici.

In proposito abbiamo intervistato Carlo Federici, autore di più di 170 pubblicazioni sui temi della conoscenza, della valorizzazione e della conservazione del materiale librario e documentario e attualmente docente di Teoria e tecniche della conservazione dei materiali archivistici e librari all’Università Ca’ Foscari di Venezia e di Principi e metodi di conservazione e restauro del libro nella Scuola Vaticana di Biblioteconomia. Ha inoltre diretto la Biblioteca Angelica, l’Istituto centrale di patologia del libro e la Struttura Biblioteche e Sistemi documentari della regione Lombardia.

Oggi un disegno del Quattrocento si può fotografare liberamente se inserito in un codice degli Uffizi, ma non se conservato in un codice di una biblioteca. Secondo lei chi è contrario alla liberalizzazione, invocando per esempio presunte ragioni di tutela, sa di doversi misurare con questa contraddizione?

Temo che gli oppositori alla liberalizzazione neppure si avvedano della contraddizione giacché l’intera questione mi sembra frutto del combinato disposto di grossolana ignoranza e annosa malafede. In effetti non credo ci sia bisogno di essere esperti di archivi o biblioteche per capire che, se c’è una differenza tra le modalità di consultazione del disegno degli Uffizi e quelle del codice, essa è tutta in favore di quest’ultimo che nasce e viene conservato per lo scopo primario di essere consultato.

Lei ha aderito alla petizione «Fotografie libere per i beni culturali» denunciando l’assurdità dell’esclusione dei beni bibliografici e archivistici dalla liberalizzazione. C’è una relazione tra riproduzione fotografica e pericolo di eccessivo contatto – quindi di usura – con libri antichi e documenti oppure è una questione malposta?

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Chiariamo che la riproduzione non determina alcun contatto con l’oggetto da riprodurre poiché l’apparecchio deve necessariamente essere posto a una certa distanza dall’oggetto. Se mai è la consultazione che potrebbe sollecitare materialmente il documento. Ma, ribadito che libri e documenti vengono conservati per essere studiati, credo che sia il caso di sfatare la superstizione che il degrado di questi beni culturali sia accelerato dalla fruizione. Parlo ovviamente della fruizione prudente e avvertita: un libro antico non può essere consultato come si farebbe con un quotidiano che è prodotto per durare un giorno. Ciò premesso, stabilito che è nostro dovere trasmettere ai posteri il patrimonio culturale che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri padri, vorrei far notare che anche noi siamo tra i posteri cui spetta il godimento di quelle testimonianze del passato.

Commentando la sua adesione alla petizione, lei segnala l’intelligenza e la sensibilità di chi dirige le biblioteche e che in alcuni casi decide di contravvenire alla norma. È così?

Spero che mi consenta un minimo di reticenza nel rispondere alla sua domanda poiché non vorrei che qualche zelante magistrato della Corte dei Conti aprisse un’inchiesta accusando questi encomiabili direttori di danno erariale per le riproduzioni gratuite. Personalmente di essi penso tutto il bene possibile: di norma si tratta di direttori che sono anche studiosi e che quindi comprendono perfettamente le necessità dei loro colleghi e fanno del loro meglio per favorirle. Per contro gli oppositori sono ascrivibili alla schiera degli occhiuti burocrati per i quali libri e documenti sono «pratiche» piuttosto che beni culturali.

Oltre alla preventiva autorizzazione, nell’emendamento restrittivo figura un’espressione relativa al lucro, diretto o indiretto, ovvero non viene consentito di pubblicare se non dietro il pagamento di «diritti» e attraverso lunghe pratiche burocratiche di «concessione» limitando di fatto la libera diffusione del sapere. Perché questa strategia della costante complicazione inutile?

In effetti si tratta di un balzello introdotto più di vent’anni fa, secondo me un po’ avventatamente, durante il ministero Ronchey. L’intenzione del legislatore era quella di rimpolpare le casse del Ministero con i proventi dei diritti di copia dei beni culturali italiani. In concreto le entrate su questo capitolo furono ridicole. Per giunta le riproduzioni di libri e documenti sono determinate perlopiù da esigenze di studio e coloro che ne hanno maggior bisogno sono in genere giovani ricercatori i quali, ai giorni nostri, vivono purtroppo una condizione di precariato che si prolunga nel tempo e che non consente loro di contare sul supporto economico di un ente. Insomma, al solito, la forza viene usata soprattutto verso le categorie più deboli.

La British Library, venendo incontro alle esigenze di studiosi e studiose, proprio quest’anno ha stabilito di liberalizzare le riproduzioni di volumi antichi e manoscritti, mentre il progetto «Gallica» della Bnf permette a chiunque di scaricare gratis milioni di documenti o volumi antichi. A quanto pare nel resto del mondo le cose funzionano diversamente. Secondo lei c’è qualche speranza che anche qui in Italia chi fa ricerca non debba rassegnarsi agli umori dei legislatori?

Per quanto riguarda la Francia, oltre a Gallica, nella Bibliothèque nationale si possono liberamente fotografare i manoscritti; lo stesso vale naturalmente per i documenti conservati nelle «Archives Nationales». Bisogna sottolineare tuttavia che l’iniziativa cui lei accennava in apertura, promossa da Mirco Modolo e da altri giovani ricercatori, ha riscosso l’unanime consenso della comunità degli studiosi sicché speriamo che il Parlamento, e il ministro Franceschini in primis, non sia insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di loro. A parte le battute, pare che qualche segno positivo si cominci a scorgere: numerosi esponenti delle Commissioni cultura di Camera e Senato si sono espressi in favore della proposta di liberalizzazione. Non ci resta che confidare che queste «buone intenzioni» si traducano al più presto in efficaci disposizioni legislative.