La parola indiana satyagraha, che significa resistenza passiva o nonviolenta, e forza della verità, fu utilizzata con grande efficacia da Gandhi durante la colonizzazione britannica. Da sempre ha a che fare con il risveglio della nostra coscienza. In India, i movimenti di non collaborazione ebbero inizio quando gli inglesi cercarono di tassare le terre dei contadini e le case delle persone. Gandhi mise in atto per la prima volta il Satyagraha in Sudafrica nel 1906, rifiutando di collaborare con le leggi del regime dell’apartheid, che imponevano la registrazione obbligatoria sulla base della razza. Henry David Thoreau coniò il termine «disobbedienza civile», spiegando in un saggio il suo rifiuto, come forma di impegno per l’abolizione della schiavitù, di pagare il testatico (poll tax). Leggi morali superiori impongono ai cittadini di disobbedire alle leggi che istituzionalizzano l’ingiustizia e la violenza. Nel 1930, quando gli inglesi introdussero le leggi sul sale imponendo il proprio monopolio e rendendo illegale la produzione da parte degli indiani, Gandhi organizzò la marcia Satyagraha del sale; camminò fino alla costa e a Dandi Beach dichiarò: «La natura ci offre il sale liberamente e noi ne abbiamo bisogno per la sopravvivenza. Continueremo a produrre il sale. Non obbediremo alle vostre leggi».

Le libertà di cui godiamo oggi sono frutto delle lotte dei nostri genitori e antenati, che rifiutarono di collaborare con leggi ingiuste – come la schiavitù negli Stati uniti, la segregazione razziale in Sudafrica e negli Stati uniti, o la colonizzazione in India. E la resistenza passiva, nonviolenta, satyagraha, è più importante che mai oggi, nell’era della «post-verità». Nel 1987, quando le multinazionali cominciavano a parlare dell’appropriazione dei semi mediante i diritti di proprietà intellettuale, presi l’impegno di salvare i semi, di mantenerli liberi e di non collaborare con le norme che ne criminalizzano la conservazione e lo scambio. Il 2007 è il centesimo anniversario del Satyagraha Indigo: Gandhi guidò la protesta dei contadini indiani contro la coltivazione forzata dell’indaco. L’organizzazione che ho creato 35 anni fa e che si chiama Navdanya – ovvero nove semi, che simboleggiano la protezione della biodiversità, dei piccoli agricoltori, della diversità culturale – ha voluto celebrare questi cento anni con un Satyagraha dei semi, per la rinascita dei semi veri e vitali, per la protezione della biodiversità in India e in tutto il mondo, per la possibilità da parte degli agricoltori di continuare a custodire i semi e a co-evolvere con intelligenza verso la diversità, la qualità e la salute – in linea con il nostro dovere più elevato, quello di proteggere e aver cura della Terra e del benessere dei suoi abitanti.

In India il nostro Satyagraha dei semi è stata prima di tutto contro Monsanto e i suoi tentativi di brevettare i semi e raccoglierne le royalties, contro il sistema che permette la commercializzazione del nostro patrimonio culturale e delle risorse naturali di Madre Terra. Si sono svolti Satyagraha per l’acqua, contro la Coca Cola in Kerala e la privatizzazione dell’acqua a Delhi, e contro l’acquacoltura industriale; in prima linea le donne che hanno protetto con successo il diritto della popolazione all’acqua potabile. Il Satyagraha della senape si oppone al tentativo di introdurre la senape geneticamente modificata in India e mette al centro il diritto a cibo sano e sicuro. I Satyagraha dei tribali (nel Niyamgiri) e dei contadini (nel Singur e nel Nandigram) hanno fermato la rapina delle terre tentata dalla globalizzazione.