In Staccando l’ombra da terra, il suo libro dedicato al volo, Daniele Del Giudice ha scritto che ogni decollo è una metamorfosi, la trasformazione di una «quantità di metallo» in aeroplano, materia pesante che si fa simile al cielo quasi confondendosi con l’aria. Vanish into thin air è un’espressione inglese la cui traduzione letterale, «scomparire nell’aria sottile», fa pensare a questo particolare mutamento, ma che in realtà significa più semplicemente «svanire nel nulla». A questa espressione si richiama Pierpaolo Vettori nell’incipit del suo romanzo Un uomo sottile (Neri Pozza, pp. 174, € 17,00), facendone l’emblema della «fuga dal mondo» del personaggio di cui l’autore insegue le tracce, appunto lo scrittore Daniele Del Giudice.

È noto che Del Giudice, morto nel settembre 2021, si eclissò a causa del morbo di Alzheimer che lo colse precocemente, ma Vettori vede nella drammatica malattia che ha afferrato l’autore di Atlante occidentale l’esito e il simbolo estremo di un processo di lenta riduzione al silenzio a cui Del Giudice sembrava aver sottoposto già da tempo la propria attività letteraria. Un uomo sottile, libro vincitore della quinta edizione del premio Neri Pozza, assume così la forma di un’«amorosa inchiesta» alla ricerca dello scrittore e delle ragioni di quel suo progressivo «scomparire nell’aria sottile», e vuol essere anche un modo per afferrarlo sulla soglia del nulla in cui è sprofondato.

Un’avventura letteraria che non può non ricordare, rinnovandolo e richiamandolo, l’esordio nel romanzo dello stesso Del Giudice, quello Stadio di Wimbledon (1983) in cui un anonimo narratore si metteva sulle orme di uno scrittore che aveva scelto di non scrivere, Roberto Bazlen. La strategia narrativa di Vettori, tuttavia, è lontana dall’essere un calco dello Stadio, presentando infatti ai lettori un intreccio che riunisce il tentativo dell’alter ego dell’autore di scrivere un libro su DDG (così, con un acronimo, viene nominato Del Giudice) al racconto della malattia al cervello che coglie Laura, la moglie del narratore, e agli incontri immaginari di quest’ultimo coi personaggi letterari creati da Del Giudice. Minimo comune denominatore di queste linee è il senso di un allentamento della presa sul reale, che si manifesta come incapacità dell’autore/narratore di trovare una forma al libro e alla ricerca sul silenzio di DDG, come progressivo scollamento da se stessa di Laura a causa della malattia e come impossibilità dei personaggi delle opere di DDG di definire l’autore che li ha inventati.

È, in fondo, lo stesso dilemma della rappresentazione della realtà che attraversava Lo stadio di Wimbledon, di recente ristampato da Einaudi (pp. 144, € 15,00). Nella quarta di copertina originale, ora pubblicata in calce al volume, Italo Calvino – propiziatore del debutto di Del Giudice – suggeriva che una delle immagini-chiave del romanzo fosse la carta di Mercatore, «la carta con cui si costruiscono quasi tutte le altre, dato che si può immaginare come la proiezione della terra su un cilindro tangente alla sfera dell’equatore, sul quale il mondo tagliato con le forbici venisse arrotolato e poi srotolato e messo in piano». Ma cosa racchiude questo simbolo? Una traccia di risposta si può trovare in un’intervista di Del Giudice del 1986, in cui l’autore ammetteva che Carta di Mercatore era proprio il titolo di lavorazione del suo romanzo (così come, in Un uomo sottile, è il titolo provvisorio che il narratore/protagonista dà al proprio libro), mettendo in rilievo il suo fascino per la geografia intesa come «grande arte della rappresentazione» non naturalistica, ma convenzionale. Per costruire «qualche cosa che corrisponde alla realtà» è necessario il calcolo, ma anche l’immaginazione: c’è un resto irriducibile affidato all’invenzione che non permette mai la coincidenza trasparente di mappa e territorio. Non si tratta di uno scacco, ma di una caratteristica dell’umano: nelle prime pagine dello Stadio, il narratore in arrivo a Trieste sulle orme di Bazlen dialoga con un ufficiale dopo un guasto al treno che li trasporta, e il personaggio del militare enuncia un principio che farà quasi da guida al resto della narrazione: «Pensi che facciamo un mucchio di calcoli per la prospettiva, per riprodurre un difetto della vista».

All’irrimediabilità di questo difetto della vista, il narratore di Un uomo sottile sembra più volte sul punto di arrendersi. Ancora nelle ultime pagine del romanzo, dopo aver evitato di incontrare DDG in carne e ossa nella casa di cura dove è ospitato, ricorda il cancello di ferro che separa il reparto di DDG dal giardino dell’istituto: una riflessione tanto più pregnante, in quanto la professione del narratore/protagonista è proprio quella del fabbro. Un cancello rifinito finemente da «antichi maestri» del mestiere, di cui non si sente all’altezza. A lui, che pure è dotato di strumenti «più maneggevoli e veloci» sembra impossibile riuscire a ottenere oggi un lavoro tanto perfetto, così come al suo sguardo è negata quella trasparenza che nella frantumazione del presente è inattingibile, a differenza che nella composizione del passato. «Anche il mio viaggio intorno a DDG – afferma – avrebbe bisogno di strumenti più adeguati. Volevo che fosse ben temperato, scaldato a fuoco vivo, immerso bruciante nell’acqua gelida e poi ancora battuto a martello fino a diventare acuminato e splendente. Adesso vedo quel cancello chiudersi di fronte a me e separarmi per sempre da DDG.»

L’unico esito concepibile dell’inchiesta è allora scivolare in un silenzio simile a quello di Del Giudice, tacere di fronte a «ciò di cui non si può parlare» ultimativamente? Ma qui forse bisogna guardare a un altro lato possibile di quel silenzio, che non è una resa all’inconoscibile, ma un abbandono coincidente con una grazia che permette di aderire alle cose, invece che di porsele dinnanzi con gli strumenti della rappresentazione. Aleggia ancora, qui, lo spirito di Bazlen non per come lo ha evocato Del Giudice, ma come ce lo ha restituito Roberto Calasso nel suo Bobi (Adelphi 2021): lo spirito di uno «sciamano travestito in abiti borghesi» che aveva trovato il proprio «modo di diventare vivo» in «un irrimediabile non sapere, esposto alle onde in ogni direzione». Ed è esattamente una riemersione alla vita il traguardo della narrazione di Un uomo sottile, un abbandono alle onde degli eventi che portano in dote al narratore la (lenta) guarigione della moglie, sul cui comodino, nell’ultimo paragrafo del libro, compare un libro di DDG. Quasi a siglare una tregua della memoria e della conoscenza con le proprie intermittenze, in un finale che salda strettamente la possibilità di conoscere con quella di amare e di vivere.