A proposito del suo Rigoletto, capolavoro di sintesi ed efficacia drammaturgico-musicale, Giuseppe Verdi scrisse: «Le mie note, belle o brutte che siano, non le scrivo mai a caso e procuro sempre di darvi un carattere». L’allestimento dell’opera in scena al Teatro alla Scala di Milano fin all’11 luglio le restituisce quel «carattere» che era venuto inesorabilmente a mancare all’allestimento del 1994 di Gilbert Deflo e Riccardo Muti, ripreso infinite volte e ormai vittima della sua stessa pomposa «scaligerità», come la chiamava Ezio Frigerio, che ne aveva firmato le scene.

MARIO MARTONE traspone la storia nel presente sfrondandola di ogni barocchismo visivo grazie alle scene di Margherita Palli e ai costumi di Ursula Patzak, che definiscono un mondo bifronte dove il lusso dei potenti e la miseria dei cortigiani sono le due facce della stessa società essenzialmente tronfia e corrotta. Straordinario il lavoro sia sugli attori protagonisti, totalmente immersi nei loro ruoli, sia sulle comparse, componenti essenziali dell’affresco in cui quella società si staglia come una corte dei miracoli di sapore vittorughiano (sia quello de Le Roi s’amuse, cui Rigoletto si ispira, sia quello di Notre-Dame de Paris). Lasciano il segno i riferimenti ai film Parasite di Bong Joon-ho (all’inizio) e Funny Games di Michael Haneke (alla fine).
Il direttore Michele Gamba trova un equilibrio raro tra buca e scena, lasciando per lo più al canto melodico il compito di restituire l’«italianità» quintessenziale del Verdi della trilogia popolare e affidando ai colori orchestrali quello di evidenziare, nella «tinta» che il compositore ha confezionato su misura per quest’opera, reminiscenze beethoveniane, «sonorità pre-mahleriane» e «assonanze schubertiane», dunque slanci d’avanguardia verso la cultura europea. Il cast dei cantanti asseconda con grande slancio le intenzioni condivise del direttore e del regista. Pietro Pretti trova la giusta cifra vocale per dare al Duca il carattere allo stesso tempo del «giovin signore che se la gode» (Gamba) e del «demonio garbato» (Martone) che corrompe tutto e tutti. Amartuvshin Enkhbat presta a Rigoletto la sua voce potente e la sua sensibilità attoriale e, lavorando di sottrazione, scolpisce uno schernitore vile e un padre tirannico mai privo di umanità. Nel tratteggiare Sparafucile Gianluca Buratto usa la voce fragorosa come arma che persuade e punisce.

IL MONTERONE di Fabrizio Beggi è in equilibrio tra la dignità tonante del giusto e il rovello dell’emarginato, come la Maddalena di Marina Viotti lo è tra sfrontatezza e sentimentalismo. Magnifica Nadine Sierra, che dal 2016, quando ha debuttato alla Scala nel ruolo di Gilda, se ne è impadronita: qui lo approfondisce in senso lirico più che melismatico, smorza ogni virtuosismo fine a se stesso e calibra ogni gesto, lasciando trasparire un’identificazione che sui palchi lirici è rarissima. Il solito isolato manipolo di loggionisti, nella sua ormai comica autoreferenzialità, bua.