Visioni che nascono da una suggestione, da un pensiero, da una sensazione. Bruna Esposito (Roma 1960) parla di «chiamate» riferendosi all’incontro «suo malgrado» con i materiali e con le cromie, come per allegro non troppo, prima sua mostra personale allo Studio Stefania Miscetti di Roma (fino al 30 giugno). Lo spazio espositivo è accogliente con i suoi intrecci di amache colorate (il titolo dell’installazione è lo stesso della mostra) i cui nodi uniscono senza soffocare, legano ma non stringono. Dal quotidiano, certamente, provengono anche tutti quegli altri elementi che danno forma all’opera: le plastiche, le carte, l’hula hoop e anche le due grandi ciotole che contengono aghi di pino e catrame bituminoso, come un’offerta votiva deposta in un luogo sacro. «È il nostro sguardo che rende preziosa una cosa o un’altra», afferma l’artista.

UN PO’ SERIOSAMENTE, ma anche un po’ scherzosamente, si entra in una sfera che è accogliente quanto respingente. «Tutto è legato in maniera provvisoria e senza una particolare cura. L’equilibrio è disturbato dalle spinte di qua e di là. Quindi non c’è nulla di dritto e ben fatto. Questo ’non troppo’ – per me – è stato proprio (ed è) anche lo specchio del momento che stiamo vivendo, un’epoca che dovrebbe essere molto più allegra per tutti i comfort abbiamo e che non lo è».

C’è anche un’idea di nido in questo site specific. «Mi hanno detto le cose più incredibili: il mare, le reti, i baccelli, le tube e le ovaie, il rastrellamento, le culle, i setacci… Finora non potrei negare nessuna interpretazione. Vuol dire che in ognuno stimola e sollecita un’interpretazione personale o evoca qualcosa che risuona diversamente». È come se desiderio e intuizione covassero a lungo, finché non arriva il momento giusto e tutto prende forma così come doveva essere.

Transitorietà e impermanenza sono ricorrenti nel lavoro di Bruna Esposito che con la scultura mutevole Aquarell nel 1999 si aggiudicò il Leone d’oro alla Biennale di Venezia insieme alle altre artiste del Padiglione Italia (Monica Bonvicini, Luisa Lambri, Paola Pivi e Grazia Toderi). Nel 2016 è stata invitata alla XIII Biennale Internazionale di Cuenca (Ecuador), dove ha sviluppato il tema della rassegna utilizzando le stesse amache monocrome cambogiane (l’opera è stata donata al museo Pumapungo di Cuenca), parteciperà alla mostra The place to be al Maxxi di Roma (maggio) e alla seconda Biennale di Ostenda, curata da Joanna De Vos e da Jan Fabre (in ottobre).

QUANTO ALLE VELINE delle arance utilizzate nelle due opere esposte – Veline Vetrage (1996/2017), che riprende l’idea della grande vetrata realizzata per la Quadriennale del 1996 e le lampade di plexiglas (2000/2017), è la stessa artista ad ammettere di avere «una passione malsana per le veline delle arance che raccolgo da anni e continuo a raccogliere, come gli appassionati di figurine. Le adoro, sono bellissime e bruttissime. Prendo, raccolgo, colleziono, utilizzo…».

Quando avviene il passaggio dalla collezione all’opera? «È un mistero. L’unica cosa che posso dire di sapere è che non so!». Nell’opera Vedi Napoli e poi muori (2017) la palette si fa più contenuta con le carte degli amaretti che prendono il posto delle veline delle arance. La plastica e le polveri di brillantini usate per la nail art trovano il loro posto ideale su una vecchia stampa del Golfo di Napoli: come parole portate dal vento sono segni delicati, enigmatici, apparentemente leggeri e potenzialmente surreali.