Un quaderno di zombie, vulcani e femmine folli
Cinema «Casa de Lava - Caderno», gli appunti di Pedro Costa durante le riprese del film, a Capo Verde, aprono nuovi mondi e donano una strabiliante lezione di montaggio
Cinema «Casa de Lava - Caderno», gli appunti di Pedro Costa durante le riprese del film, a Capo Verde, aprono nuovi mondi e donano una strabiliante lezione di montaggio
Quando Pedro Costa parte per Capo Verde, nel 1994, sono passati ormai cinque anni dal suo primo film, O sangue, una storia per certi versi faulkneriana, tra fratelli e padri morti, da seppellire, più una certa intenzione cinefila, che spesso fa capolino nei primi film, dove è facile rintracciare omaggi, citazioni sotterranee a registi e film amati. In questo primo film girato in un bianco e nero molto contrastato è facile ritrovare Charles Laughton (The Night of the Hunter – La morte corre sul fiume), certa libertà molto nouvelle vague, l’influenza di Paulo Rocha. È insomma un esordio degno di nota, di cui, nondimeno, lo stesso Costa misura certe ingenuità, proprio legate a questi omaggi: è un film completamente immerso nel cinema. Cinque anni dopo, accompagnato produttivamente da Paulo Branco, Costa si appresta a girare il suo secondo film, Casa de Lava. Il punto di partenza ruota ancora una volta intorno a un omaggio cinematografico. Chi abbia un minimo di confidenza con i suoi film sa benissimo quanto abbiano contato per lui i film di Jacques Tourneur (in particolar modo Stars in My Crown). Qui però il riferimento va al periodo in cui Tourneur collaborava con il produttore Val Lewton. Insomma, il punto di partenza di Casa de Lava, o meglio della sua sceneggiatura, è una storia devota a I Walked with a Zombie, film horror del 1943, liberamente ispirato a Jane Eyre. Un viaggio verso San Sebastian, isola nelle Indie Occidentali, una donna in preda a una specie di coma, un’infermiera e il marito della paziente, più il suo fratellastro.
«Delle avventure a Capo Verde, vulcani, zombie, femmine folli». Così Pedro Costa riassume il soggetto del suo film. É questo che egli ha in testa e ha scritto nella sceneggiatura presentata ai finanziatori, mentre sta per partire per i primi sopralluoghi. Con sé ha pure un quaderno. Verde. Lo porta perché, come ogni regista, pensa di prendere appunti, annotare cose. Ebbene, quel quaderno diventerà qualcosa di più. Lo abbiamo ora tra le nostre mani. La casa editrice Pierre Von Kleist, con sede a Lisbona, lo ha stampato e riprodotto così com’è: Casa de Lava – Caderno (il quaderno è accompagnato da un supplemento trilingue che contiene un’intervista a Pedro Costa e un breve testo di Philippe Azoury – pagg.144, 30 euro). Si tratta di un documento strabiliante, per il modo di pensare il cinema, il montaggio, la circolazione delle immagini.
Chi abbia avuto tra le mani il vecchio dvd francese di Casa de Lava poteva già ammirare negli extra le pagine di questo quaderno. Ma averlo tra le mani, sfogliarlo, fa tutto un altro effetto. E non è solo una questione di allergia ai formati digitali. È l’idea che tu possa sfogliarlo velocemente come se si trattasse di un flip book, anche se la consistenza delle pagine ne limita lo scorrimento. Proprio sfogliandolo in questo modo emerge tutta la sua dimensione verticale, da collage. Perché di un collage si tratta.
Giunto a Fogo, l’isola dell’arcipelago di Capo Verde dove il film verrà girato (insieme a quella di Santiago), Pedro Costa inizia a costruire, o meglio, a mettere insieme una sceneggiatura sotterranea, fatta di fotografie scattate sul luogo, ritagli di giornali, riproduzioni di quadri e fotogrammi di film. La realtà del luogo cozza contro la sceneggiatura precostituita. Va a finire che il film sposta irrimediabilmente il suo asse: dalla prima sceneggiatura «alimentare», Costa dirige Casa de Lava verso il quaderno. «Ai giorni nostri deve essere piuttosto buffo considerarsi uno sceneggiatore cinematografico: «Interno notte. La pioggia cade contro i vetri. Joana non riesce a dormire. La macchina da presa si avvicina lentamente». È questo approccio al cinema che Pedro Costa inizia a contestare. Lo segnala nell’intervista che accompagna il quaderno: «Per quanto mi riguarda, è con Casa de Lava che ho cominciato a capire queste cose e a fare scelte importanti. In un quaderno come quello, si può fare tutto ciò che istituzioni e la televisione non vi lasciano fare. In una sceneggiatura, apparirà sempre pretenzioso se non offensivo citare Eschilo o fare riferimento a un disegno di Paul Klee, per descrivere un personaggio». Il quaderno diventa insomma una specie di interzona dove focalizzare meglio certi elementi legati al film, al suo farsi. Il quaderno non è solo un’opera di creazione, ma diventa un materiale vivo in grado di fungere da «coscienza critica delle riprese», sostiene Costa, qualcosa che «ha accompagnato le riprese di un film in particolare che provocava in me le crisi e le angosce che le sceneggiature convenzionali non dovrebbero evidentemente mai provocare».
Nella filmografia di Pedro Costa, Casa de Lava figura come un film di cruciale importanza. Da lì si farà strada un percorso che lo porterà a filmare il vecchio quartiere di Fontahinas, a Lisbona, popolato da immigrati capoverdiani (Ossos, No quarto da Vanda, Juventude em marcha, The Rabbit Hunters, Tarrafal…). Pare incredibile che tutto questo tempo filmato e vissuto sia stato innescato da due pagine di quaderno giunte a mettere in discussione un interno modo di fare e pensare il cinema. Sono le pagine centrali del quaderno, le prime che Costa afferma di aver «montato». Vi si vede il titolo di un articolo di giornale dedicato ai vaccini pericolosi esportati nei paesi africani a lingua portoghese, la foto di una donna in bianco, Jennifer Jones in Portrait of Jennie, incollata sopra il sottotitolo. Nella pagina che precede, vediamo il retro di una cartolina con la dicitura «Vulcano di Fogo», il timbro postale di Capo Verde (tre infermiere della croce rossa riprese di schiena), un altro francobollo con una chiesa in pietra. Sulla cartolina Costa scrive «R. Desnos». Una famosa lettera a Youki Desnos inizierà a circolare nei film (la troviamo in Casa de Lava e poi in Juventude em marcha). Si tratta della lettera che Desnos scrive all’amata Youki dal campo di prigionia di Royallieu, il 15 luglio del 1944, in attesa di partire, destinazione Auschwitz, poi Flossenbürg e infine Terezin, dove morirà di stenti, malato di tifo, nel 1945. Malattia, vaccini pericolosi, morte (Capo Verde è uno dei paesi più flagellati dall’Aids), un vulcano tutto nero, Desnos e i campi di prigionia. Tutta una serie di elementi cominciano a coagularsi nel quaderno, che diventa un attrattore di immagini, in grado di mettere a fuoco la vera trama del film, quella nascosta. Così come appare nascosta l’immagine sotto la cartolina (chissà che cosa mostrava).
Il film e il quaderno funzionano così: mostrano e insieme occultano. Ogni immagine, ogni foto, ogni testo che vi appare incollato schiudono mondi, soprattutto donano una lezione di montaggio. Klee, Franju e i suoi «occhi senza volto» (Edith Scob appare nel film), fotografie degli attori, e degli abitanti dell’isola, Munch, Edie Sedgwick, rapporti sulla sieropositività, figure in convalescenza, stati di coma, una foto di Lenin seduto su una sedia a rotelle, zombie e cadaveri, ritratti e cimiteri, interni d’ospedale, militari, la lettera di Desnos, l’odio della morte per gli egiziani, toni cromatici, il nero della pietra capoverdiana, il blu di Picasso: il senso circola. Cosa emerge da due o più immagini accostate? Oppure: cosa si nasconde?
Se parliamo di occultamento è perché nel film e nel quaderno rimane qualcosa di inafferrabile. Come affermerebbe Jean Renoir in La regle du jeu, anche qui ognuno ha le sue ragioni. Completato a film terminato, per insoddisfazione, lasciato perire con una serie di pagine bianche, il quaderno giace ora nelle nostre mani. È qui a fianco a noi: «Per coloro che conoscono già il film, spero che il quaderno lo renda più oscuro, o che lo illumini di un’altra luce. Ma vi si scoprono pure delle cose davvero nascoste… come ad esempio quanto Picasso sia stato davvero importante per me». Perché Picasso?, chiede Nuno Crespo, l’intervistatore. «Preferisco non rispondere», ribatte Costa.
Picasso amava smodatamente un racconto di Balzac, «Il capolavoro sconosciuto». Vi si parla della lotta di un artista nei confronti dell’immagine. Alla fine, nel racconto, l’immagine resta velata, nascosta sotto strati di colore. Solo un piede emerge. Credo che anche Pedro Costa lo conosca.
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