Ci sono molti modi per guardare e definire un’immagine, immediata o in movimento, più complicato è semmai il codificarne le prestazioni sia in termini di linguaggio sia di interattività. Le più pertinenti , a distanza di molti anni, sembrano ancora quelle di Luigi Ghirri. Il grande fotografo le dettò nell’incipit delle sue lezioni all’Università del Progetto di Reggio Emilia nel gennaio del 1989:”Oggi qualsiasi fotografia, pezzo musicale, videoclip, film, pubblicità, opera letteraria, cinematografica o artistica, quindi anche pittorica e scultorea, interagisce inevitabilmente con altri linguaggi”. E più avanti aggiunge:”E’ impossibile oggi pensare a un’opera chiusa all’interno di una storia specifica, senza alcuna relazione con gli altri media”. Dunque, lasciando da parte quesiti filosofici appartenenti all’area emiliano-bolognese, la medesima cui apparteneva: Ghirri entra a gamba tesa in argomento non accorgendosi che ciò che già gli sembrava realtà era profezia. Infatti,  una ventina d’anni dopo l’hic et nunc che, in più punti Ghirri sottolinea ripetendosi e allora andava configurandosi, è diventato per l’intero sistema intellettuale e artistico estrema consapevolezza, peraltro affinata dal balzo in avanti della tecnologia, e  appendice di sé nello sfruttamento sensibile di ogni media. Sotto tale prospettiva di azione, l’ampia selezione delle polaroid scattate da Wim Wenders, slittate dalla mostra Instant Stories visitabile alla Photographers’ Gallery di Londra fino all’11 febbraio 2018 ad un libro, Polaroid Stories (con testi del regista tedesco, 403 foto, 7 di Anne Leibowitz, pp. 320, euro 50),  pubblicato in edizione tedesca, inglese come catalogo dell’esposizione ed ora grazie alla Jaca Book disponibile in traduzione italiana, consente di aver squadernata dinanzi e nell’intero svolgimento della carriera del settantaduenne cineasta di Dusseldorf, il preannunciarsi di tale futura condizione di lavoro. La medesima che, in chiusura di post-scriptum, discorre sulla cultura contemporanea del “selfie” e sull’uso, con esempio finale, dell’iphone. Proprio, su quest’anticipo temporale e attraverso l’immediatezza della riproduzione fotografica di un’immagine data dalla polaroid come oggetto, Wenders sembra aver costruito il suo quaderno di note e appunti; il work in progress, lo storyboard o come lo si vuole chiamare esistenziale ed essenziale allo sviluppo drammaturgico e storico dei suoi film. Ciò apre un altro fronte riflessivo e retorico sulla funzione di queste foto, che proiettate, al di là del loro valore narrativo, nel cannibalismo cinefilo del fotografo-cineasta assumono il contorno del gioco di famiglia elencato nei luoghi e nei personaggi ritratti. E tornano a mente gli inizi di Wenders, studente di cinema, critico (riletta oggi la dichiarazione che il rock gli avrebbe salvato la vita non può non strappare un sorriso d’accondiscendenza al pari della retorica del viaggio, che, non considerata nella sua dimensione residenziale, divenne stampella intellettuale, specialmente per un certo tipo di cinema italiano attivo tra la metà degli anni ottanta e gli anni novanta) e poi finalmente regista. Non a caso nelle 36 storie che commentano le immagini di queste foto e accompagnano  alcuni titoli dei suoi film come “Alice nelle città”, “Nel corso del tempo”, “Falso movimento”, “L’amico americano”, che l’hanno consacrato come uno dei maggiori registi, tout court, concorsi a cavallo e con disinvolta discontinuità tra la fine del XX secolo e questi anni dieci del nuovo, Wenders non teme di soggiacere ancora “una volta” a quello che chiama con felice opzione “inquadratura vuota”.