Nel borsino della riforma elettorale cogliamo un lieve rialzo. Il mercato è instabile, perché l’attenzione è posta non su quello che serve al paese, ma sull’utile immediato di questa o quella forza politica.

Sembra ora prevalere l’ipotesi di un proporzionale simil-spagnolo, con piccole circoscrizioni e senza recupero dei resti su base nazionale.
Vantaggi e svantaggi si distribuiscono tra i soggetti politici, come ha scritto Fabozzi su queste pagine. In sintesi, diminuendo l’ampiezza della circoscrizione cresce il vantaggio per i partiti più grandi, e viceversa; il recupero solo circoscrizionale dei resti sfavorisce i partiti minori, salvo uno spiraglio per quelli territorialmente concentrati, ad esempio in aree urbane. In prospettiva, e salvo cambiamenti della situazione politica, la foto di famiglia rimane nei tratti essenziali quella data dai sondaggi: destra coalizzata e vincente, Pd in recupero affannoso, M5S marginalizzato, sinistra sparsa verso l’estinzione. Bene che vada, milioni rischiano di non essere rappresentati.

Sembrano almeno al momento tramontate le ipotesi di accentuare il maggioritario o di mantenere con pochi ritocchi la legge vigente. La tentazione c’è stata, in specie per le dichiarazioni di Di Maio dopo il voto in Umbria sul ritorno del Movimento alle origini, e sul no alle coalizioni. Avrebbero ancor più distorto la rappresentatività delle assemblee, soprattutto dopo il taglio dei parlamentari. Né dovrebbe a mio avviso incidere il passaggio in Corte costituzionale del referendum Calderoli per un ritaglio maggioritario del Rosatellum bis. I precedenti suggeriscono che il quesito sia inammissibile, perché non produce una disciplina immediatamente applicabile, ed è comunque eccessivamente manipolativo della legge vigente.

Dunque, meglio questo proporzionale, seppure sbilenco. Ma non mancano – per quanto sappiamo – criticità anche pesanti. Ad esempio, il voto bloccato. Se applicato anche solo per i capilista, con circoscrizioni di piccola dimensione il parlamento sarebbe tutto o quasi scelto dalle oligarchie di partito. E si dovrebbe tener conto anche di ulteriori effetti collaterali.

Un primo punto è l’impatto sul sistema dei partiti. Le opzioni considerate si differenziano per la dimensione delle circoscrizioni e le tecnicalità del riparto dei seggi. Ma hanno una essenziale caratteristica comune: restringono la competizione in un ambito circoscrizionale di ridotte dimensioni, tagliando il legame con il livello nazionale. È un modello in odore di localismo. La domanda è: in un sistema politico già gravemente feudalizzato, non si rischia di esaltare la dominanza di cacicchi e capetti? Non si indeboliscono ancora gli evanescenti partiti nazionali? Non si rende il contesto più permeabile ai divari territoriali, già gravi ed evidenti? E come incide tutto questo su temi intrinsecamente divisivi, come l’autonomia differenziata?

In Spagna, il sistema elettorale ha favorito i partiti territoriali ed ha probabilmente contribuito alla conflittualità. Possiamo escludere analoghi rischi per l’Italia? Inoltre, una spinta alla frammentazione potrebbe rafforzare in chiave di bilanciamento le pulsioni per l’uomo forte al comando e un presidenzialismo di stampo sudamericano. Uno scenario che – ci dice il Censis – non dispiace ad ampi settori dell’opinione pubblica, ed è esplicitamente sostenuto da una destra vogliosa di egemonia.

Allora un secondo tema, meno immediatamente visibile, è mettere in sicurezza la Costituzione. Fin dal Mattarellum è chiaro che l’art. 138 – revisione anche con la sola maggioranza assoluta dei componenti – non è un argine significativo. Chi governa dispone di un grimaldello per mettere mano al patto fondamentale. È accaduto nel 2001, nel 2005, nel 2016. I sistemi elettorali vivono in simbiosi con il sistema politico e la Costituzione. Le opzioni in campo potrebbero indirettamente contribuire a indebolirla.
Tutto si tiene. E dunque sarebbe utile affiancare alla legge elettorale una revisione dell’art. 138 della Costituzione che rialzasse il quorum della metà più uno dei componenti (al 60% o i 2/3), e rendesse comunque necessario il voto popolare. Un passaggio forse impervio nel clima politico attuale. Ma una Costituzione di parte non conviene, mai. Se non è di tutti, è di nessuno.