Da una parte un immaginario erotico provinciale, dai caratteri esibiti, eccessivi; dall’altra una prospettiva junghiana, con esibizione di archetipi e di inconscio collettivo: all’incrocio di questi modelli sta un soggetto di Federico Fellini, L’Olimpo I miti greci, pubblicato a cura di Rosita Copioli e Gérald Morin, con introduzione di Sergio Zavoli, dalla Società Editrice Milanese (pp. 161, € 15,00). A quanto si apprende, il regista aveva pensato all’argomento a più riprese, secondo il suo uso: la stesura conservata risale ai primi anni ottanta, come mostrano alcuni rinvii attualizzanti a film o situazioni di quegli anni. Destinato al cinema, ma anche a una possibile «serie» per la televisione, il testo ripercorre in sequenza piuttosto serrata alcune narrazioni mitiche, dalle primigenie storie di Urano e Crono all’affermazione del regno di Zeus. Di qui si passa agli amori del medesimo Zeus, alle vicende di Semele e Dioniso, di Pasifae, Minosse e Teseo. Ricordi di liceo e manuali di mitologia (quello di Karl Kerényi, per esempio) sembrano aver fornito il materiale, ripensato poi alla luce delle teorie di Jung (alle quali Fellini arrivò per tramite dell’analista Ernst Bernhard) e rivisitato anche sulla traccia di James Hillman.

Come è chiaro, l’interesse del soggetto non sta nella sua originalità, o nel pregio letterario della stesura: quest’ultima, anzi, presenta stranianti tratti passatisti («maestoso maglio», «inebbria» «dipinti lombi» «sublime artificiere»), che sembrerebbero quasi dannunziani, vorrebbero forse essere ironici, ma suonano talora piuttosto ridicoli. Sull’Olimpo, e altrove, gli dèi e le dee immaginati da Fellini si esibiscono in un attivismo erotico inesausto, anche attraverso forme meno esplicite, e più familiarmente felliniane (seni, odori, rumori). Ma il lettore non saprebbe sottrarsi a un dubbio: pur concedendo molto al carattere onirico di numerosi passaggi, in quale forma si sarebbero dovuti presentare gli iperbolici coiti e le abbondanti produzioni spermatiche di cui il soggetto è così ricco? Certo, in più punti l’autore fornisce indicazioni filmiche (quali luci, quali suoni, etc.), ma in generale sarà da privilegiare quanto si legge in una nota a proposito dei giganteschi Centimani: la loro lotta non dovrà avere «niente di realistico» e andrà evitata anche «un’epica di cartapesta» che ricordi il Maciste del cinema muto.

E tuttavia, la tendenza felliniana a lasciar cadere molte realizzazioni, è nota: perciò non è facile credere che il progetto abbia mai cercato una sua vera realizzabilità. La forma appropriata cui vien fatto di pensare è soprattutto il disegno. Più ancora che alle mascolinità del Satyricon o alle prosperose (e archetipiche) forme della Ekberg, l’Olimpo evocato da Fellini nei Miti greci richiama infatti i disegni dell’autore stesso, o quelli di Milo Manara. La rivisitazione dei miti greci implica molta primitività, violenza, bestialità: si vien quasi a completare l’idea di un mondo sessuale «radioso, immenso, prospero, opulento, generoso» (Morin), che si ritrova nei film realizzati. Pur se le storie sono concatenate tra di loro, il singolo episodio prevale sulla continuità (come in Fellini Satyricon). L’impressione è quella di una scrittura privata, nella quale in fondo le immagini (descritte o suggerite) contano più dei loro eventuali significati. Anche per questo i richiami esterni appaiono posticci o innecessari: sia quando si paragonano le situazioni mitiche al presente (Dioniso accostato a un «celebre “cantante-gay”», il corteo dionisiaco paragonato «all’esplodere corale e pantomimico dei grandi raduni di “hippies” e “punk”, drogati o no», e simili), sia quando si ambisce a raccordare il racconto ai temi profondi, come il nesso tra parricidio e rivoluzione o il rapporto tra figura materna e regressione. Nel complesso, solo l’opera maggiore del regista spiega l’interesse eventuale per questo abbozzo, che forse poteva restare in archivio non immeritatamente.

La pubblicazione appare accurata, ma non consente di fare «filologia» intorno al testo. Per esempio, non si danno troppi dettagli sull’origine delle «fotocopie», conservate presso la Cineteca Comunale di Rimini, che trasmettono l’unica stesura superstite del testo. Esiste, altrove, un originale perduto? Mostrare la fotografia di almeno una pagina della copia dalla quale deriva il soggetto, qui edito per la prima volta, sarebbe stata una scelta opportuna: anche per fugare sospetti di inautenticità (già da taluno espressi). E poiché chi ha curato il testo assicura d’aver corretto i refusi, dovrebbe essere imputato all’autore il fatto che siano chiamate «Norme» quelle figure del destino che al solito sono dette «Nòrne»: ma certo, fellinianamente, non si può mai essere certi di nulla…