È l’8 ottobre del 2016. Un raid aereo saudita stermina un’intera famiglia (tra cui una madre incinta e quattro bambini) nel villaggio Deir Al-Hajari. Nello Yemen siamo a un anno e mezzo dall’inizio delle prime violazioni del diritto internazionale umanitario provocate dalla guerra. Quell’attacco lascia sul terreno un frammento dell’ordigno sganciato, con sopra il logo della Rwm Italia spa, ditta italo-tedesca che realizza testate e munizioni di medio e grosso calibro con stabilimento a Domusnovas (Sardegna).

CON QUEL RITROVAMENTO, in Italia inizia il primo processo penale d’Europa che vede indagati i vertici dell’azienda che ha realizzato l’arma impiegata e i funzionari pubblici che hanno concesso le licenze per la sua esportazione. «È un caso più unico che raro, per il quale il 20 dicembre rischiamo l’archiviazione andando per la seconda volta davanti al giudice per le indagini preliminari di Roma», ricorda al manifesto l’avvocata Francesca Cancellaro, che segue il procedimento per l’European center for constitutional and human rights e la Rete italiana pace e disarmo.

Con questa battaglia legale che va avanti da anni, i promotori mirano a far passare nella responsabilità penale italiana il principio della due diligence: «La richiesta alle imprese che operano in settori delicati e pericolosi, come quello dell’esportazione di armamenti, di avere un certo grado di attenzione, di diligenza e responsabilità in più», chiarisce la legale. «A nostro parere, anche nell’ambito di un’attività regolamentata, l’azienda produttrice non può trincerarsi dietro la semplice esibizione di un’autorizzazione ricevuta da un’autorità pubblica, se è dimostrabile la conoscenza di elementi di illegittimità e di problematicità tali per cui quel tipo di esportazione avrebbe causato i danni che poi effettivamente si sono prodotti». In sintesi, «non mi basta il pezzetto di carta autorizzativo, ma sono responsabile per ciò che materialmente produco ed esporto». Vorrebbero così ottenere una maggiore prudenza da parte dei venditori di armi, un controllo in chiave preventiva dell’uso che potrebbero farne.

TORNIAMO al loro caso di esportazione di armi italiane verso lo Yemen: «La situazione era nota a tutti ancor prima che la politica, con molto ritardo, imponesse lo stop – continua Cancellaro – figuriamoci all’operatore di settore. Progressivamente e sempre di più, man mano che passava il tempo, le prese di posizione internazionali, i rapporti indipendenti, quindi fonti di natura molto eterogenea ma sempre più pressanti e dotate di una certa credibilità, avevano ben descritto la situazione».

Un principio, questo della due diligence, che potrebbe quindi essere applicato anche al caso delle cartucce a marchio Cheddite fotografate in Myanmar e in Iran durante la violenta repressione delle proteste di piazza pro-democrazia. Includendo persino controllate e fornitori, come avvenuto per le cartucce da caccia calibro 12 a marchio Yaf (turca)-Cheddite (franco-italiana) trovate anche nel teatro di guerra siriano, che si prestano a possibili triangolazioni con Paesi terzi per aggirare le sanzioni internazionali.

«Politicamente è censurabile e dovrebbe essere bloccata – riprende l’avvocato del caso Rwm-Yemen – qualsiasi forma di delocalizzazione che diventa un modo per sottrarsi alla responsabilità. Il confine tra le pratiche elusive e quelle di mercato è molto sottile, ma ben chiaro e comprensibile a tutti. La responsabilità penale è personale e va valutata nello specifico, ma per accertarla è necessario innanzitutto conoscere e studiare le strutture societarie, per capire come si è mosso il modello aziendale». Ecco perché, per Cancellaro, approfondire i passaggi avvenuti nei casi Myanmar e Iran può comunque diventare materia per la magistratura.

«PRIMA di poter ipotizzare delle responsabilità ci vorrebbero delle indagini e qualcuno disposto a farle. Per analizzare questi casi, che sono molto opachi, servono però fonti investigative autonome. Le cose si scoprono solo nel momento in cui si va ad accertarle, perché altrimenti è molto difficile prospettare un’inchiesta giudiziaria che abbia le gambe e che non sia semplicemente una forma di protesta politica mascherata da azione legale». L’avvocata non ha dubbi: «Laddove ci siano conflitti aperti, notorietà delle gravi violazioni dei diritti fondamentali, con accertamenti anche da parte degli organi internazionali, non ci si può trincerare dietro la scusa del “non lo sapevo”». E quanto sta avvenendo in Myanmar e in Iran, ancor prima in Siria, era purtroppo ben noto a tutti.