L’ultima copertina della rivista «New Scientist» riporta un inquietante interrogativo su sfondo nero: «Abbiamo davvero trovato le onde gravitazionali?». Il dubbio riguarda una delle più importanti scoperte degli ultimi decenni, premiata con il Nobel per la fisica del 2017 e fiore all’occhiello anche della fisica italiana, poiché uno dei tre rilevatori di onde gravitazionali si trova a Cascina, in provincia di Pisa. Secondo uno studio realizzato dagli scienziati del Niels Bohr Institute di Copenhagen guidati dallo statunitense Andrew Jackson, su quella scoperta gravano molti dubbi. Lo studio danese è stato pubblicato ad agosto 2017 su una rivista minore, il «Journal of Cosmology and Astroparticle Physics». Finora era passato inosservato, provocando al massimo qualche reazione sprezzante sui social network da parte del team Ligo che vinse il Nobel. Complice anche l’attenzione del «New Scientist», ora gli stessi scienziati di Ligo annunciano una risposta più dettagliata. Evidemente, la critica non si può più ignorare.

LE ONDE GRAVITAZIONALI sono una conferma ulteriore della teoria della relatività generale di Einstein, che spiega il comportamento dell’universo su larga scala. Le onde più intense si generano quando masse molto grandi (buchi neri o stelle di neutroni) si mettono a ruotare a grande velocità da qualche parte nell’universo. Per intercettarle, è necessario rilevare piccolissime oscillazioni causate dal loro passaggio, in osservatori costituiti da tunnel lunghi tre o quattro chilometri. Le grandi dimensioni servono ad amplificare le oscillazioni di lunghezza, dell’ordine di un miliardesimo di miliardesimo di metro. Proprio sulla capacità di rilevare un segnale così debole si concentrano le critiche del team danese. Infatti, una struttura grande alcuni chilometri è soggetta a moltissime vibrazioni di origine naturale e artificiale, da un tuono durante un temporale a un camion di passaggio su una strada vicina, tutte molto più intense di quelle gravitazionali nonostante gli osservatori siano dotati degli «ammortizzatori» più sofisticati al mondo. Riuscire a rilevare le piccolissime vibrazioni di origine cosmica in mezzo a tutto quel «rumore» è praticamente impossibile: sarebbe come tentare di riconoscere un sussurro durante una mareggiata.

PERCIÒ, per ovviare a tali interferenze gli scienziati usano (almeno) due osservatori. Ciò permette di distinguere il rumore caotico dal segnale significativo: tutte le oscillazioni che si rilevano in un solo osservatorio vengono attribuite a cause accidentali e scartate; le oscillazioni rilevate con sufficiente chiarezza in entrambi gli osservatori, invece, potrebbero rivelarsi onde gravitazionali e vengono approfondite. Per le prime onde gravitazionali, sono stati usati gli osservatori di Hanford (Stato di Washington) e Livingston (Louisiana), a migliaia di chilometri di distanza tra loro. Dopo aver annunciato la scoperta, gli scienziati di Ligo hanno messo a disposizione della comunità scientifica i dati raccolti. I fisici di Copenhagen li hanno analizzati e hanno scoperto strane correlazioni nei dati raccolti nei due osservatori. Semplificando molto, si potrebbe dire che anche le oscillazioni dei due osservatori bollate come «rumore» appaiono correlate tra loro. Se il segnale e il rumore sono altrettanto correlati, diventa difficile distinguerli. Il gruppo di Jackson, dunque, non nega che gli scienziati di Ligo abbiano davvero osservato un’onda gravitazionale, ma ne mette in discussione l’affidabilità. Da Ligo fanno sapere che l’analisi dei danesi, anche se si basa sui dati autentici, non tiene conto di molte sottigliezze, che in una prossima pubblicazione si premureranno di chiarire.

NON È LA PRIMA VOLTA che una «scoperta» delle onde gravitazionali è messa in discussione e, infine, bocciata. È già successo con la cosiddetta «barra di Weber», un’antenna per le onde gravitazionali che, secondo il suo ideatore, nel 1987 avrebbe permesso di captare le oscillazioni generate da una supernova, un risultato mai replicato da altri scienziati.
E più recentemente lo stesso destino sfortunato è accaduto ai cosmologi dell’esperimento Bicep2, che nel 2014 avevano interpretato certe oscillazioni nelle microonde che pervadono tutto l’universo come onde gravitazionali generate nell’universo primordiale. Furono accolti da un certo scetticismo, e analisi più accurate svelarono che in realtà si trattava di polvere interstellare. Stavolta il consenso sulla scoperta è soverchiante e quasi nessuno mette in discussione la scoperta. Una delle ragioni principali è che, dopo le prime tre onde (quelle contestate), nell’agosto del 2017 ne è stata rilevata una quarta generata da due stelle di neutroni, rilevata anche a Cascina e visibile con i radiotelescopi tradizionali che ne hanno confermato la veridicità.
Anche chi ritiene che le onde siano state davvero scoperte, però, riconosce che c’è un problema. Una scoperta scientifica, per essere tale, deve essere riproducibile. Gli autori, cioè, devono fornire alla comunità tutti i dati e gli strumenti per confermare o smentire l’analisi. Ad esempio, secondo la fisica e divulgatrice tedesca Sabine Hossenfelder, che pure non dà credito il gruppo danese, questo sforzo di trasparenza non è stato compiuto fino in fondo dagli scienziati di Ligo. «Se non sono in grado di spiegare le loro procedure in modo che altri scienziati possano capire ciò che hanno fatto, è un problema e deve essere risolto».

NON È UN PROBLEMA di facile soluzione quando si tratta di Big Science. Alcuni esperimenti necessitano di infrastrutture tali da essere difficilmente riproducibili. Oggi la fisica di frontiera si fa intercettando neutrini sotto chilometri di roccia al Gran Sasso, o di ghiaccio in Antartide. Oppure facendo scontrare protoni alla velocità della luce in anelli di 27 chilometri, come al Cern di Ginevra. Quanti altri laboratori possono replicare simili esperimenti? Non a caso, per cercare il bosone di Higgs il Cern mise in piedi due esperimenti rivali, denominati «Atlas» e «Cms», in modo che il risultati dell’uno confermassero o smentissero l’altro. E si trattò di competizione vera, come ha raccontato Guido Tonelli, a capo di uno dei due team, nel suo avvincente La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016).
La riproducibilità degli esperimenti, però, è uno degli aspetti più trascurati dalla divulgazione. L’informazione è piena di scoperte sensazionali che però non vengono replicate da nessuno. Raramente si tratta di frodi. Piuttosto, soprattutto in medicina e nelle scienze umane, gli esperimenti si basano su numeri troppo piccoli per fornire conclusioni statistiche definitive. Oppure, le pressioni accademiche e commerciali creano negli stessi scienziati dei pregiudizi (gli psicologi li chiamano «bias cognitivi») che influenzano i risultati.

CI SONO DISCIPLINE in cui gli scienziati lavorano con la massima trasparenza, condividendo dati e strumenti di analisi, e altre in cui brevetti e interessi industriali impediscono la circolazione dell’informazione. Ma questi aspetti raramente raggiungono il pubblico non esperto e nascono gli equivoci. Una scoperta non replicata, soprattutto in ambito medico, può dare adito a falsi «eroi solitari», «in lotta contro i poteri forti»: è accaduto con la bufala dei vaccini che danno l’autismo di Andrew Wakefield, con il metodo anti-cancro di Luigi Di Bella, o con la falsa terapia a base di staminali di Davide Vannoni. Al contrario, scoperte replicate mille volte, come il riscaldamento del pianeta, possono essere ancora negate impunemente da capi di stato come Trump o Bolsonaro, in nome di una malintesa libertà di opinione.