Il 22 gennaio 1873, quando aveva appena cinquantatré anni, Walt Whitman venne colto da un ictus che gli paralizzò la gamba e il braccio sinistro, costringendolo a mesi di immobilità e limitandolo nei movimenti per il resto della vita.

Lontani gli anni frenetici della Guerra Civile, trascorsi come infermiere negli ospedali militari; al tempo l’autore di Foglie d’erba lavorava presso l’ufficio del Procuratore Generale a Washington, ma la prolungata degenza – e soprattutto gli attacchi ricevuti per le sue poesie, considerate immorali – gli costarono il licenziamento.

Alla morte della madre, nel maggio di quell’anno, Whitman tornò a Camden, nel New Jersey, dove sarebbe vissuto fino alla morte, prima nell’abitazione del fratello George e poi, dal 1884, in una casa di proprietà al 328 di Mickle Street, che diventò un’attrazione nazionale, guadagnandosi una menzione nella guida turistica della città in quanto residenza del «nobile e venerabile poeta».

Nel corso degli anni, alla porta di Whitman bussano ammiratori e amici provenienti da entrambe le sponde dell’Atlantico, letterati, giornalisti e cacciatori di autografi, giovani scrittori in cerca di ispirazione e promozione e anche semplici curiosi. Tutti restavano inizialmente delusi di fronte alla modesta casa di legno a due piani, con la pittura scrostata e i battenti delle finestre da sostituire.

Eppure, in una stanzetta del secondo piano zeppa di manoscritti, lettere, libri e riviste, ad accogliere benevolo chiunque andasse a trovarlo c’è «uno degli spettacoli più grandiosi del XIX secolo – l’oracolo dell’epoca che attende serenamente che arrivi la sua ora e, preso dalle sue infermità, porta a compimento gli audaci geroglifici che adorneranno il suo nobile e immortale obelisco».

Così si legge in uno degli articoli dedicati a Whitman in quegli anni, uscito anonimo sul «New York Herald» nel 1888 – il giornale dove il poeta aveva pubblicato il maggior numero di componimenti – e che ora si trova raccolto insieme ad altre interviste e ricordi su di lui in Non esiste diavolo peggiore dell’uomo (traduzione di Émil Ronìn, De Piante editore, pp. 246, € 20,00).

L’Omero americano

Gli scritti inclusi nel pregevole volume vanno dal 1876 al 1892, anno della morte di Whitman, e permettono di seguire gli sviluppi della poetica di un artista tra i più innovativi e rivoluzionari dell’Ottocento: l’«Omero americano», lo definisce Franco Buffoni nell’acuta prefazione al libro, determinato a «passare ai posteri come la voce di un’America sana e vigorosa, pronta alla conquista, alla produzione e alla riproduzione».

Whitman è infatti convinto di rappresentare una nazione destinata a diventare «una grande civiltà materiale – con prodotti, macchinari, comunicazione su vasta scala e tutti i miglioramenti pratici e moderni che si possano ottenere», ma che con incrollabile fede democratica immagina «distribuiti equamente nel nostro vasto territorio». Un ottimismo forse ingenuo, il suo, ma lucidamente consapevole che quel paese potrebbe «conquistare il mondo intero, se fosse il caso, ma non lo è».

Nelle parole di Whitman riportate dai giornalisti e dagli scrittori che raccontano il loro pellegrinaggio, il bardo americano plasma e commemora se stesso in una sorta di ventriloquio programmatico, ripetendo concetti chiave del suo pensiero e arricchendo ogni volta la propria figura di aneddoti e dettagli sempre nuovi, ingigantendola fino ad accogliere l’intero genere umano.

Che tutto ciò faccia parte di una specifica poetica lo si evince dalla sua rievocazione della genesi di Foglie d’erba: «Mi ero prefisso di illustrare, senza esitazioni, l’attuale umanità. Mi ero proposto di portare a termine una serie di composizioni che avrebbero dovuto illustrare la figura di un uomo: fisica, emotiva, morale, intellettuale e spirituale. Quell’uomo, a scopo illustrativo, ero io».

Anche nelle interviste, quindi, il poeta canta se stesso per cantare ognuno di noi, senza stancarsi di ribadire l’importanza della «fratellanza umana, la solidarietà» su cui si basano i suoi versi. Con ogni visitatore Whitman si informa sui più recenti progressi nella scienza, nella religione e nell’arte; si dichiara fervente sostenitore del darwinismo e manda i saluti agli «amici» oltreoceano, specie ai recensori inglesi che lo hanno sempre apprezzato di più rispetto ai propri connazionali. Ai più ferventi ammiratori vende seduta stante una copia di Foglie d’erba, prendendola dalla pila di libri che ingombrano la stanza, oppure chiede agli amici più intimi di inviarne copia ad altri acquirenti.

Seduto su una poltrona foderata con una vecchia pelle d’orso (come lo ritrae una celebre fotografia), Whitman sfoggia una folta chioma candida e una barba altrettanto lunga e bianca: a chi gli chiede con insistenza l’età risponde di avere centotrentacinque anni.

Dà udienza anche ai visitatori più importuni, a volte rispondendo a monosillabi, ma con qualcuno si lascia andare a commenti sui grandi scrittori dell’epoca, senza risparmiare critiche rispettose e giudizi controcorrente: se Emerson resta «il primo tra gli uomini», il suo limite è «che dubita di tutto»; dietro l’amore per la natura provato da Thoreau riscontra «un morboso disprezzo per l’umanità»; i romanzi di Hawthorne «non sono granché» perché «sentimentali, malinconici, morbosi», così come i racconti di Poe, per i cui scritti Whitman afferma di aver «a lungo, e fino a ieri, provato disgusto», salvo confessare di esserne stato recentemente «sedotto».

Umoristi al bando

Tra i suoi preferiti troviamo Tennyson e Longfellow, Walter Scott e George Sand, ma soprattutto, da vero americano, Shakespeare e la Bibbia, solide basi della letteratura nazionale. Non ammira Dickens, e non riesce a leggere Bret Harte «e quella genia di umoristi» che volge l’esistenza umana «in una grottesca farsa, una parodia priva di qualsiasi umorismo».

Whitman è convinto che la vera e unica poesia sia il linguaggio dei lavoratori, la parlata rozza – e proprio per questo poetica – dell’uomo comune. Nelle interviste ricorda con nostalgia le esperienze giovanili come carpentiere e stampatore, racconta ai giornalisti di essere stato loro collega, ascolta le storie di ognuno e si interessa soprattutto agli artisti in erba, facendo spesso notare con rammarico – e un chiaro doppio senso – come esista «tutto un mondo sommerso di giovani uomini e donne che non hanno modo di esprimersi».

Un amore allora dannato

Come fa notare Buffoni, infatti, Whitman ha avuto il coraggio «di cantare esplicitamente un genere di amore per cui in molti Stati dell’Unione era prevista la pena di morte», e con la sua arte ha ispirato giganti della letteratura del Novecento come Hart Crane, Ezra Pound e Allen Ginsberg. Nel ventunesimo secolo, l’eredità del poeta che «contiene moltitudini» è stata raccolta da artisti come Tracy K. Smith, poeta laureata dal 2017 al 2019 e autrice di una famosa poesia intitolata appunto «The Everlasting Self», e Ocean Vuong, considerato dalla critica «il Walt Whitman della letteratura vietnamita americana».

È anche grazie al bardo americano se oggi – per citare un celebre verso del suo Crossing Brooklyn Ferry – «Quel che lo studio non poteva insegnare – quel che la predica non poteva suggerire l’abbiamo realizzato, o no?».