Un pizzico di sale, una zolletta di zucchero: due alimenti da usare q.b. (quanto basta) per non mettere a rischio la salute e destabilizzare l’equilibrio del gusto. Ma anche due ingredienti energizzanti dalle connotazioni simboliche – il sale sta alla saggezza (cum grano salis) come lo zucchero alla dolcezza – conosciuti e utilizzati fin dall’antichità, di cui gli artisti contemporanei si nutrono per interpretare la storia.
Il sale, in particolare, a cui è stato spesso affidato un ruolo decisivo nei rituali religiosi, come ci ricorda anche la Bibbia – sacrificio, integrità, patto d’alleanza – è l’elemento centrale di The Soul of Salt (2016) di Patricia Kaersenhout, riproposta a Palermo in occasione di Manifesta 12 (fino al 30 novembre). Il grande cumulo di grani bianchi occupa una sala di palazzo Forcella De Seta, sede della sezione Out of Control Room. Secondo la leggenda caraibica gli schiavi si sarebbero astenuti dal mangiare il sale con la speranza che sarebbero diventati più leggeri per poter tornare in Africa volando. Nel video la benedizione di un capo spirituale africano di una montagna di sale allude al dolore remoto mai cicatrizzato: il pubblico è invitato a partecipare al rito, raccogliendo il sale per portarlo a casa e scioglierlo in acqua auspicando il dissolversi dell’atavica sofferenza. Oggi quel rinnovato dolore non può non identificarsi con la sofferenza dei migranti che affidano il loro destino ad un viaggio incerto nelle acque salate.

Anche la Montagna di Sale di Mimmo Paladino è la rappresentazione di un dramma. Nata come scenografia per la rappresentazione teatrale della Sposa di Messina di Friedrich Schiller (1990) tra le rovine di Gibellina Vecchia è un lavoro al confine tra Arte Povera e Land Art. È diventata opera autonoma in cemento (piazza del Plebiscito a Napoli, 1995) e nuovamente con il sale (piazza del Duomo a Milano, 2011) con i suoi cavalli neri di pece che emergono dal sale. Si presenta come una moderna Annunciazione Salt Wind (2013) di MaïMouna Guerresi, dittico fotografico in cui il sale – sparso sul tavolo e sul pavimento – è associato al femminile. La tradizione si coniuga con un elemento estraniante, simbolo di modernità: il ventilatore le cui pale, tuttavia, sono immobili e mute. Il movimento non viene prodotto, quindi, dall’attivazione del dispositivo meccanico, ma da un ipotetico vento che entra in scena silenziosamente. Il ruolo dell’artista non è mai quello di indirizzare verso un pensiero dogmatico, ma di stimolare una discussione critica con uno sguardo libero.
In ambito minimalista concettuale si colloca, invece, il lavoro di George Brecht con la gustosa e ironica Sonnensalz (1969) – una confezione di sale comune che, partendo da un malinteso, diventa scultura/multiplo in edizione illimitata (è stata esposta anche nella mostra Arts & Foods alla Triennale di Milano per Expo 2015) – e Jack Sal con le installazioni Salt/Room-Sale/Sala (1999/2000) alla Rocca Paolina di Perugia, Salt og menneske (2002) al Danmarks Saltcenter di Mariager, Salt/Block (2003) alla Galerie Brigitte Schenk di Colonia e The Edge of Vision: Abstraction in Contemporary Photography (2009) all’Aperture Foundation di New York. Il sale, in questo caso, è associato alla carta fotografica (proprio grazie alla sua sensibilità è stato usato per la stampa tradizionale ai sali d’argento) e talvolta al cliché-verre, tecnica a metà tra incisione e fotografia. Sal demanda al sale la registrazione della memoria nella sua azione/reazione con il mondo esterno, mentre in Bitter/Sweet (2012) per l’Ecomuseo-Parco Sculture Lungolago di Lesina (a tutt’oggi in fase progettuale) l’uso del sale grosso diventa metafora dell’opposto, rappresentato dallo zucchero. Sulle sommità dei due grandi blocchi di marmo bianco, concepiti come se fossero leggerissimi e galleggiassero nelle acque del lago, le cavità conterranno da una parte il sale e dall’altra lo zucchero in un dialogo concettale tra visto/nascosto, sommerso/rivelato, marmo/acqua, amaro/dolce. Quest’idea di monumentalità è spiazzante, proprio come lo è la gigantesca sfinge dal volto tipico della cuoca negra, con il sesso esibito nella sua nudità per sancire l’innegabile evidenza della riappropriazione del potere da parte della donna, che Kara Walker ha modellato usando quintali di zucchero per la mostra A Subtlety, or the Marvelous Sugar Baby (2014). Nell’antica fabbrica di zucchero Domino Sugar Company di Williamsburg a New York, prima della sua chiusura e demolizione, l’artista afroamericana ha raccontato una pagina della storia invisibile degli sugar boys (i ragazzini neri che in condizioni di schiavitù portavano lo zucchero raffinato nelle cucine del Nuovo Mondo), da lei realizzati a grandezza naturale con la melassa.

Anche nella pratica di Kader Attia l’uso di elementi deperibili è determinante per veicolare il suo messaggio che è sempre di analisi e critica sociale, economica e politica. Se in Untitled (Ghardaïa) edifica una fortezza di cous cous, nel video Oil and Sugar #2 (2007) ricorre ad una torre di zollette di zucchero che cosparsa di olio nero si disintegra lentamente, traducendo anche quel senso di instabilità che accompagna i momenti critici che ciclicamente riaffiorano in ogni società. Ambiguità e contraddizione, del resto, sono insite nella voyeuristica seduzione della distruzione.

Ancora una zolletta di zucchero per Meret Oppenheim, musa ispiratrice del movimento surrealista, che addolcisce il prezioso Sugar Ring (l’anello è stato ideato nel 1936) trasformando lo zucchero in pietra preziosa commestibile e intercambiabile.