La tournée nei teatri di Marco Paolini con il suo Le avventure di Numero Primo, che è anche il titolo del romanzo, scritto come lo spettacolo da Paolini a quattro mani con Gianfranco Bettin (Einaudi, pp. 325, euro 19) ha registrato ovunque un tutto esaurito, e il libro è già alla sua terza ristampa. È stato uno degli ultimi seguiti, per la collana Stile Libero, da Severino Cesari, scomparso lo scorso 25 ottobre, che gli autori ringraziano alla fine del volume. «Era stato proprio Severino a definire ‘un po’ Pinocchio e un po’ E.T.’ il bambino protagonista del romanzo, questo bizzarro essere che si chiamerebbe Nicola ma che preferisce farsi chiamare Numero Primo. Ne ha seguito la nascita con divertimento e tenerezza, e con l’intelligenza intensa che metteva in ogni cosa, che aveva come cifra del proprio stare al mondo, prima ancora che nell’impresa intellettuale ed editoriale che ha inventato insieme a Paolo Repetti», racconta Gianfranco Bettin.
Del romanzo, in particolare, abbiamo conversato insieme ai due autori, che hanno risposto con una sola voce.

Come nello spettacolo, nel romanzo si ride e ci si commuove, soprattutto per le sorti di questo eccentrico bimbo, ma la storia è percorsa da una tensione che proviene dal conflitto tra le potenzialità inaudite della ricerca scientifica e il dominio su di essa, tra le finalità universalistiche di ricercatori e scienziati, che si può dire siano i veri padri e madri di Numero Primo, e le logiche di potere e di profitto di chi tenta di controllare la ricerca, e di impossessarsi dei suoi frutti, o dei suoi figli…

Abbiamo lavorato sempre su un doppio registro: la storia avventurosa, on the road, picaresca o pinocchiesca appunto, e lo scontro con il potere e le sue finalità, i suoi modi spietati. Abbiamo anche spinto la trama oltre il consueto conflitto interno agli umani, coinvolgendo la natura stessa, vorremmo dire la «psicologia» dell’intelligenza artificiale che della storia è, a pieno titolo, una reale co-protagonista.

Alla fine, questo bambino, che caratteristiche possiede: chi è davvero?
È intanto un bambino, appunto. Strano, mai visto prima, desiderato e immaginato da una madre scienziata in carne e ossa, ma messo al mondo con la determinante opera di una macchina evolutissima. In un certo senso, è l’incarnazione delle potenzialità della scienza quando è mossa da un’umanissima volontà generativa e da un’avanzatissima potenza tecnologica e computazionale. La sua libertà è la stessa che vorremmo attivare per la ricerca, per la scienza, e la naturalezza del suo sentire e agire, comunque sia nato, è quel «di più» di forza, energia e confidenza con il mondo che ci piacerebbe fosse possibile per la nostra specie, per le nuove generazioni.

Sembrate condividere una certa fiducia nella scienza. Possiamo dire che sia così?
Non dobbiamo temere la libertà e perfino la spavalderia della ricerca, fatto salvo il principio di precauzione. Dobbiamo temere che cada nelle mani sbagliate. La scienza è il bene comune più cruciale e in quanto tale deve essere proprio «figlio di tutti: nel romanzo, lo scontro intorno a Numero Primo ha questa posta.

Il romanzo è ambientato nei prossimi anni ma comunque nella nostra epoca, con alcune invenzioni suggestive: dal vecchio petrolchimico di Porto Marghera trasformato nella Fabbrica della Neve allo sciopero dei robot, in un percorso che va dalle Dolomiti alle campagne ripettinate e smaltate del Nordest, con i suoi distretti ridisegnati dall’ingegneria genetica, fino alle coste adriatiche e agli antipodi del Mar dei Coralli, nell’oceano australe. Perché?
Abbiamo immaginato un mondo non molto diverso da questo nostro che abitiamo, ma nel quale alcuni processi – già in atto ora – si sono radicalizzati. Come accade anche in due altri romanzi italiani recenti: Roma, di Vittorio Giacopini e History, di Giuseppe Genna, un’epica anarchica il primo e un horror distopico il secondo. Come ha scritto Paolo di Paolo, e anche il manifesto, un certo ritorno dell’immaginazione fantascientifica aiuta ad afferrare i movimenti del presente. Nel nostro caso, pure con una buona dose di «immaginazione sociologica» oltre che teatrale e letteraria.
L’effetto è solo un po’ straniante, quanto basta per mostrare che le cose stanno cambiando e vanno verso orizzonti inauditi. Di cui dobbiamo aver paura solo qualora se ne impadroniscano quelli che nel romanzo sono i «cattivi»: le mani e le menti ciniche e voraci che controllano ricchezza e potere.

Il libro si apre con una citazione tratta da Leonardo da Vinci, una specie di filastrocca, e si chiude con una di Erwin Schrodinger (da «Che cos’è la vita?») e in mezzo troviamo echi di Kevin Kelly e Gunther Anders (da «L’uomo è antiquato»), oltre ad Andrea Zanzotto, un vostro vecchio e caro amico («Che sarà della neve / che sarà di noi?..», da «La Beltà»)…
Sono riferimenti, costellazioni di idee e di immagini. Molto utili sono anche state le «consulenze» tecnico-scientifiche di alcuni specialisti, che pure ringraziamo in coda al libro. La fantasia va passata al vaglio dell’attendibilità, anche se non va imbrigliata, esattamente come la scienza.