Durante il febbraio del ‘44, nel Piemonte occupato dai nazisti e devastato dalla guerra, un soldato in forza presso la Guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti riceve un curioso ordine, proveniente dai piani alti della catena di comando: redarre quanto prima una cartina dettagliata delle ferrovie messicane. Sullo sfondo storico infausto della repubblica di Salò, Gian Marco Griffi, con Ferrovie del Messico (Laurana editore, pp. 824, euro 22), dipinge l’epica minore e provinciale della formazione di un eroe comico e distratto, Francesco «Cesco» Magetti, che conosce lo scopo ma non il senso delle proprie azioni. Da questo primo filo narrativo nascono a grappolo, attraverso l’accumulo, la digressione e l’avvicendamento delle voci narranti, una quantità di vicende e di personaggi che danno al testo una spiccata forma corale e multiprospettica.
Un materiale narrativo organizzato in una struttura vertiginosa (riuscita), e orchestrato secondo la lezione – quasi letterale – dei modelli Borges e soprattutto Bolaño (in particolare quello dei Detective selvaggi), che dà risalto ai personaggi, per lo più stralunati o sognatori come il protagonista, alle loro storie e alle loro varie voci, esaltate da un’attenzione gergale e da una forza espressiva che vorrebbe richiamare Carlo Emilio Gadda.

NEL PROCEDERE quasi picaresco da una vicenda all’altra, da un personaggio all’altro, per gran parte del romanzo il lettore quasi dimentica la Storia, quella terribile ed eroica della fine della seconda guerra mondiale, che si perde nelle idiosincrasie e nei capricci dei singoli, si sottrae nella cosciente inconsapevolezza di Cesco, si stempera nel grottesco della realtà, assurda come lo è quando osservata da presso.
Sotto la lente di ingrandimento si cessa dunque di distinguere l’intrico razionale – per quanto complesso – di interessi e azioni umane che sostanzia i fatti storici, mentre emerge una serie misteriosa di eventi disarticolati, nella quale regna il caos e il capriccio della sorte, veri principi cardine della realtà: «Un uomo dipinge un animale sulla parete di una caverna, diecimila anni dopo una donna bacia o non bacia un uomo, e una guerra scoppia o la pace prospera».

STORIA E GUERRA sembrano dipendere da forze ineluttabili, tant’è che sono ricorsivamente naturalizzate (le bombe «grandinano», «piovono», la guerra è un «vento», i discorsi dei politicanti sono «inutili come pietre» e altre metafore simili), e assumono così connotati extra umani per molti versi premoderni, se, come ha affermato Lukàcs ne Il romanzo storico, è solo con la rivoluzione francese che viene meno l’impressione che la storia sia governata da forze naturali. Tanto vale allora «guardare la vita scorrere come una pelle d’acqua sopra le pietre lisce del tempo che accade, del mondo che marcia senza bisogno alcuno dell’intervento di Magetti Francesco».
È questa refrattarietà alla storia a far sì che essa si presenti esclusivamente in forma traumatica, come condizionamento che ingenera passività, un mostro alieno che giunge a insozzare la vita nuda, a flagellare personaggi trasognati come Cesco, che si vede, quasi spossessato («la furia mi ha guidato le braccia per trenta secondi buoni, che mi sono parsi ore, o giorni»), assassinare improvvisamente l’ufficiale nazista cui ha appena consegnato la mappa delle ferrovie del Messico, che a questo punto perde il ruolo di motore diegetico.
Un atto che ha molteplici implicazioni: il protagonista chiude il percorso di maturazione e ciò che appariva un elemento comico, cioè il costante mal di denti – corredato da una fifa nera del dentista –, dileguandosi, assume appieno il valore di correlativo oggettivo di una gravissima colpa (la fucilazione di un innocente) maturata nelle prime pagine del libro e che ora si trova inaspettatamente riscattata.

È QUESTA UNA COLPA profondamente legata al contesto storico (sebbene il protagonista tenti sin da subito di rimuoverla: «in assenza della volontà di fare il male, manca il male»), e nondimeno il gesto che la vendica rimane uno strappo irrelato e sconvolgente, un vero «passaggio all’atto», una scarica pulsionale irriflessa e pre-politica, che trascina violentemente il protagonista nella storia (e, si potrebbe aggiungere, dalla parte giusta, per sua buona sorte).
Scansati per settecento pagine, i drammatici eventi storici della fine del fascismo irrompono brutalmente a determinare le azioni e i pensieri del protagonista, che a questo punto si nasconde, evita un rastrellamento, fugge oltre confine. Cesco, intanto, non cessa di maledirsi (sembra dire: che bisogno c’era di entrare nella Storia?) e di rimpiangere il suo universo di incontri strampalati, in un sogno di regressione che ricorda, piuttosto che quello di un milite della Rsi nell’anno conclusivo della guerra, il nostro, di noi contemporanei europei, recentemente rientrati nolenti nel corso efferato della storia.