Ora che le Primarie hanno dato l’atteso responso, a partire da Bologna la sinistra dovrà finalmente interrogarsi su cosa è e cosa vuole essere. Perché il voto di Bologna se all’apparenza fa felici molti, ha tutti gli ingredienti per rivelarsi ingannevole.

Non è, com’era stato dipinto, un voto a favore dei «renziani» o dei «lettiani». Un candidato designato, infatti, c’era già da molto tempo, da quando il sindaco Merola lo aveva riconfermato in giunta affidandogli le deleghe con più «visibilità»: la cultura, il turismo, lo sport. Che il candidato ha usato con dovizia, andando a soddisfare le richieste di talune constituency, con fiuto strategico. Tra gli assessori, l’unico che per cinque anni non abbia mai smesso di far pensare di sé quanto mirasse a quella candidatura. Ciò nonostante, però, fino all’ultimo nel Pd bolognese era prevalsa la timidezza di indicare un candidato di partito senza sapere poi come giustificare la rinuncia alle primarie, ancor più dopo che vari numeri due, tre e quattro avevano espresso il desiderio di farsi avanti. Poi, è arrivata la candidatura Conti, quasi all’uopo, così da poter dare un senso a queste primarie ritagliate sul candidato designato. E, di fronte alla candidatura Conti, è scattato il riflesso condizionato, che ha attraversato la penisola, da Letta a Prodi a Elly Schlein, per tenere unito il fronte del centro-sinistra – inclusi gli inesistenti 5 Stelle – contro la «deriva» moderata.

Che l’assessore decennale sia stato parte di una delle giunte comunali più mediocri dell’ultimo quarto di secolo non importava più. Operazioni come Fico, il people mover, il turismo mordi e fuggi – con la gentrificazione del centro storico per la conversione in massa ad Airbnb e l’espulsione degli studenti –, la cultura come intrattenimento. Non è forse un caso che le cose migliori la giunta uscente le abbia fatte nei settori (lavoro, bilancio, programmazione urbana) nei quali nessuno degli assessori uscenti ha appoggiato il collega candidato.

Italia viva e i «renziani», nel computo dei voti a Bologna, non conteranno molto di più di un 3-5%. Il 40% dei voti alla Conti nelle primarie, invece, la dice lunga su un consenso che il ceto dirigente del Pd bolognese è venuto perdendo. Lepore ha preso 16mila preferenze, tante quante Merola alle primarie del 2011 (che alle ultime elezioni prese appena 60mila voti). Alle regionali di gennaio 2020, quando i bolognesi si strinsero attorno a Bonaccini per «fermare Salvini», il Pd prese 88mila voti, il 46.4%, la lista Coraggiosa di Schlein e Errani 16mila; ambientalisti, europeisti e l’altra sinistra, insieme, poco più di 14mila, mentre i 5 Stelle, ormai disciolti, solo 8mila (alle comunali ne avevano raccolti quasi la metà di Merola). Coalizione civica, la lista di sinistra, ne aveva presi 12mila, allora, restando poi all’opposizione.

A Bologna, le disuguaglianze di reddito sono aumentate come nel resto d’Italia e i ceti medi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati sono ancora largamente maggioritari, nonostante un reddito in declino. A loro il Pd si affida per mantenere il suo sistema di potere (che non è corrotto in sé, è la mancanza di concorrenza che lo rovina). Quel Pd ha da tempo perso di vista la base operaia e i ceti meno protetti. Ai giovani, alle donne, il cui problema a Bologna non è l’occupazione ma il salario, agli stranieri, agli immigrati (solo un terzo dei cittadini bolognesi è nato in città) viene fatto sperare nel «modello emiliano». Che negli ultimi decenni si è avvalso di una partnership pubblico-privato per cui gli enti locali subappaltano servizi a imprese o cooperative che, a costi ridotti, sfruttando il personale, fanno ciò che dovrebbe fare il pubblico, peggio.

Perché il Pd – bolognese ed emiliano in primis – il sentiero neo-liberista lo ha preso già molto tempo fa, a modo suo (sulle privatizzazioni nella sanità, sul consumo di suolo, sui temi ambientali). Non solo un partito «liquido», il cui impianto ideale è, sì, liquefatto, ma un partito che a suo modo sposa modelli «populisti», come il «bilancio partecipativo» (gestito dall’ufficio «immaginazione civica» dell’ora candidato sindaco) o l’affidamento di fondi pubblici senza bandi di gara a enti privati compartecipati. Un partito che ha rinunciato alle istanze democratiche espresse dai corpi intermedi e dagli organismi eletti. Un Pd che prende più voti nei quartieri dove c’è meno disuguaglianza, dove il «modello emiliano» tiene. E la lista Coraggiosa, invece, guadagna più della media dove maggiori sono le differenze di reddito. Stupisce quindi il gioco delle parti che ha scelto la sinistra. Poteva lasciare che il Pd si facesse le «sue» primarie, per pesare poi in sede di alleanze e ingaggiare una battaglia sui temi da sinistra, contro quel sistema di potere, facendosi voce del suo elettorato di «esclusi». Coalizione civica si è fatta cooptare, per dire ora «mai con la Conti», ma di quel 40% qualcuno dovrà farsi carico.

La sinistra si è fatta ingabbiare e compatta marcia unita dentro il sistema e non sarà così che «si deciderà il futuro della sinistra». Rassegniamoci quindi alla città dei taglieri, ancora e sempre sotto la rassicurante cupola. E a una sinistra che, a Bologna come in Italia, manca di prospettiva strategica.