È ormai chiaro che una rinnovata centralità dello Stato è la condizione sine qua non per affrontare con efficacia gli effetti economici e sociali della crisi in atto.

Ma, come l’esperienza dell’emergenza pandemica ci insegna, se è importante rivolgere un’attenzione critica al ruolo dello Stato, al fine di semplificare e velocizzare le procedure burocratiche, soprattutto in vista del Ricovery Plan, occorre allungare lo sguardo all’assetto istituzionale nel suo insieme.

L’attenzione va rivolta innanzitutto alle Regioni che, in generale, non hanno dato buona prova nella gestione del Covid-19. La Lombardia ha mostrato tutti i limiti di una sanità aziendalizzata e privatizzata.

Il «modello» lombardo, che ha costruito ponti d’oro ai privati, è sotto scacco. La tanto esaltata sanità lombarda – composta al 40 per cento da cliniche e altre strutture private convenzionate – è stata sconfitta dal coronavirus e si è trovata a contare decine di migliaia di vittime negli ospedali e nelle case di cura per anziani.

La decantata eccellenza lombarda, incarnazione dell’ideologia neoliberista per la determinazione con cui ha ridimensionato drasticamente il servizio sanitario pubblico, si è schiantata miseramente di fronte all’incapacità di rispondere alle innumerevoli richieste di aiuto, anche a livello domiciliare.

Una débâcle clamorosa, tanto più grave quanto più è negata dai diretti responsabili della sanità lombarda, a partire dal presidente Fontana e dall’assessore Gallera.

Non potrebbe essere altrimenti. La Lega e il centro-destra, infatti, hanno sempre anteposto la logica del profitto al diritto alla salute trasferendo ingenti risorse pubbliche ai gruppi privati presenti nella sanità.

Nel Centro- Sud e nelle Isole il virus è stato più clemente che al Nord. Ma il fatto che alcune regioni siano state colpite meno da Covid -19 non attenua il giudizio severo che merita l’attuale gestione della sanità, specchio fedele, in generale, di una visione pseudo-aziendalistica che ha nel connubio pubblico-privato il suo fondamento.

Nelle prossime elezioni regionali le forze di sinistra dovrebbero rimettere al centro l’obiettivo di riaffermare il ruolo centrale, pubblico e universale del servizio sanitario nazionale, correggendo finalmente le gravi distorsioni di questi ultimi decenni. Il sistema sanitario che, è bene ricordarlo, assorbe circa il 75 per cento dei bilanci regionali, rappresenta la punta dell’iceberg di una pericolosa e generalizzata violazione del dettato costituzionale.

Gli enti regionali, in base alla Costituzione e alla legge istitutiva del 1970, avrebbero dovuto esercitare solo compiti legislativi, di programmazione e di indirizzo, delegando le funzioni gestionali a Comuni e Province.

In realtà, in questi 50 anni, al trasferimento di competenze statali, che si sono succedute con cadenza periodica, non sono seguiti altrettanti provvedimenti regionali di decentramento di funzioni e competenze agli enti locali.

Invece di delegare la gestione della cosa pubblica a Comuni e Province le giunte regionali, attraverso assunzioni basate poco sul merito e molto, invece, sulla logica clientelare, hanno pensato bene di gonfiare i propri uffici di personale di norma poco qualificato, in particolare al Sud.

Per queste scelte sciagurate è stato pagato un prezzo economico e sociale alto: si è accentuato il divario Nord-Sud; sono peggiorati molti indicatori riguardanti i servizi pubblici, lo spreco di risorse, la corruzione, l’infiltrazione mafiosa, la qualità della vita, la difesa del territorio e del paesaggio, gli investimenti produttivi e nelle infrastrutture.

Con l’elezione diretta dei presidenti di Regione, a partire dal 1999, la situazione non è migliorata.

I presidenti regionali, che impropriamente si fanno chiamare «governatori», hanno contribuito non poco all’impoverimento della partecipazione democratica, allo svuotamento del dibattito politico e alla crisi stessa dei partiti.

È urgente, dunque, tornare al dettato costituzionale, e abbandonare, prima di tutto, l’idea folle dell’autonomia «differenziata» che avrebbe, da un lato, pesanti effetti negativi in termini di aggravamento degli squilibri e di accelerazione dei processi di frammentazione sociale e territoriale, e dall’altro sarebbe foriera di seri rischi per la stessa convivenza civile e democratica.

Qualche anticipazione della deriva cui potremmo andare l’abbiamo avuta già in queste settimane di emergenza, assistendo all’irresponsabile gara tra i «governatori» su chi la sparava più grossa o su chi era più bravo a disattendere le ordinanze del governo.

La strada maestra è dunque richiamare tutti al rispetto della Costituzione, facendo tornare le Regioni nei limiti dai quali sono sconfinate.

Ciò implica che le Regioni facciano una sana cura dimagrante ponendo mano al decentramento, finora negato, di compiti di gestione e di personale ai Comuni e alle Province.

Alle Province, che potrebbero avere un ruolo importante nella programmazione intercomunale e di area vasta, va restituita al più presto piena dignità istituzionale con il ritorno all’elezione diretta dei consiglieri.

E infine, va rafforzata l’autonomia politica e fiscale dei Comuni con una riforma che, migliorando il carattere progressivo della tassazione, assicuri entrate certe per garantire sevizi pubblici efficienti, un welfare locale più moderno e una cura adeguata del territorio.