Questo Pci desta ancora grande interesse, trent’anni dopo essersi auto dissolto. C’è un’orgia di scritti per il centenario della sua prima nascita. Alcuni con sforzi di seria indagine, molti con intenti denigratori: quel nome fa ancora paura ai cattivi. Si parla del Pci come fosse stato un monolite. Ma quello che si chiamerà Pci dopo lo scioglimento della Internazionale (nel 1943, in piena guerra), aveva un programma e un’organizzazione rovesciata, rispetto al “Partito comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale comunista”. Il quale aveva conosciuto una prima rifondazione con Gramsci, nel ‘26. Il risultato fu quello di costruire un partito comunista diverso da tutti gli altri, nelle politiche e nell’ispirazione che lo faranno grande (ma vanno indagati gli errori che lo dissolveranno).

Ora per alcuni pare che la colpa del fascismo sia di quel gruppo di minoranza diretto allora da Bordiga, che si staccò dal partito socialista per il rifiuto del congresso di espellere i riformisti (condizione per l’adesione, desiderata anche dai massimalisti, all’Internazionale comunista). Certo quella scissione mentre il fascismo sorgeva appare un paradosso, pure se era una delle molte che segneranno il partito socialista sino alla sua fine. Ma nessuno allora aveva capito che cosa fosse il fascismo. Pareva solo un’altra forma di partito al servizio della grande borghesia: e lo era ma con idee opposte al liberalismo. Non lo aveva capito neppure Benedetto Croce che lo appoggiò ai suoi albori, per poi ravvedersi e combatterlo. E non lo avevano capito né i socialisti né i comunisti. In quel congresso del ‘21 il pericolo fascista venne ignorato. Nella sconfitta di fronte al fascismo ogni parte delle forze che poi lo contrasteranno ebbe la sua parte di responsabilità. Ma ciò non deve far dimenticare che chi lo mise e lo tenne al potere fu la parte più reazionaria delle classi dominanti insieme alla monarchia e con il consenso dei paesi forti che per molti anni ne guardarono benevolmente l’ascesa.

La rifondazione di Gramsci, mentre il fascismo si afferma, parte dalla accettazione del nuovo orientamento dell’Internazionale – c’era ancora Lenin – per l’intesa con i riformisti, ma non si limita a questo. Le sue tesi vogliono fare del partito non più una setta che attende l’ora della presa del potere, ma una parte della classe operaia, capace di intendere le contraddizioni reali del Paese e di indicarne le soluzioni. Questa linea vince – era ormai il 1926 – alla vigilia delle leggi eccezionali che sancirono la dittatura. Gramsci, ancora deputato, viene arrestato: bisognava spegnere, dirà un giudice fascista, la sua capacità di pensare. Ma il suo lavoro teorico in carcere scoprirà un altro modo di leggere la realtà sociale, darà un altro segno al marxismo novecentesco. Allo stesso modo Togliatti, tornato in Italia nel ‘44 non porta solo la “svolta di Salerno” (il compromesso con la monarchia ai fini di un governo unitario per la guerra al nazifascismo). Porta l’idea di un “partito nuovo” cui si aderisce per programma e non per ideologia. E il programma non è più la “dittatura del proletariato”, ma la “democrazia progressiva”. Il nuovo Pci contribuisce ad una Costituzione democratica che contiene il principio dell’eguaglianza sostanziale, il primato dell’interesse pubblico su quello privato, e che sottopone la proprietà privata a vincoli sociali. La difesa della Costituzione diventa la politica del Pci.

Il capolavoro di Togliatti fu nella unione delle due anime – la destra e la sinistra, i riformisti e i rivoluzionari – del movimento di origine socialista. Un capolavoro aiutato dal “centralismo democratico” di origine terzinternazionalista che garantiva il Pci dalle scissioni ma restringeva la lotta politica entro il nucleo dirigente e tendeva a nascondere le differenze. Che diventeranno sempre maggiori a partire dalla rivelazione dei crimini staliniani, dalla tragedia della rivolta in Ungheria e poi dalla fine della espansione economica post bellica.

Nuovamente due strade si aprivano davanti al partito. La continuazione o la rottura del legame con i sovietici, la continuazione della politica contro l’arretratezza del Paese o l’analisi del nuovo capitalismo. Le due tendenze prenderanno il nome di Amendola e di Ingrao dopo la morte di Togliatti che lascia un testamento (il memoriale di Yalta: doveva rimanere segreto ma Longo lo pubblica) in cui critica l’assenza di democrazia nel sistema sovietico, che aveva difeso per tutta la vita quasi come una garanzia della sua fedeltà alle idee di trasformazione sociale pur in una politica che non si discostava da quelle delle socialdemocrazie: la democrazia politica, lo stato sociale, il miglioramento delle condizioni dei lavoratori.

Berlinguer verrà scelto come il più fedele interprete della linea togliattiana, e la teoria del “compromesso storico” lo conferma. Ma deve anche completare l’opera di Longo, che aveva appoggiato Dubcek e criticato l’intervento sovietico a Praga: e lo fa con lo strappo dai sovietici (il rifiuto dell’aiuto finanziario, l’affermazione che è meglio lottare per i socialismo in occidente piuttosto che dove te lo impongono “come vogliono loro”, e poi “la democrazia valore universale”, e in conclusione “la fine della spinta propulsiva” dell’Ottobre).

Ma la constatazione della fine di un’epoca implicava o un’altra rifondazione teorica e politica a sinistra o quello che faranno i più giovani, e cioè la liquidazione del Partito. Berlinguer sceglie la prima strada. Interrompe la falsa “solidarietà nazionale” in cui il Pci figurava in maggioranza per sostenere un monocolore dc presieduto da Andreotti, sempre più a destra dopo l’assassinio di Moro. E, pur senza proclamarlo, inizia a costruire un nuovo programma per il suo partito. Riprendendo la piena fedeltà agli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori scossa dalla esperienza di governo, e facendo propria la causa dell’ecologismo, la lotta del neo femminismo e del pacifismo. Teorizza i doveri dell’Europa verso il terzo mondo, chiama allo studio sulle nuove possibilità offerte dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. E pone infine la “questione morale”, cioè la necessità di riportare i partiti ai loro doveri costituzionali salvandoli, richiamandoli ai propri principi.

Quest’ultimo Berlinguer fu osteggiato in vita e in morte. Dai sovietici e dagli americani duramente, dagli avversari con lo scherno, ma anche dagli oppositori interni. Si disse che era preda di un attaccamento ad una identità obsoleta, mentre cercava una nuova identità, adeguata ai tempi mutati, riprendendo le anticipazioni di Ingrao sulla necessità di cambiare il modello di sviluppo. E si dice ancora che con la “questione morale” avrebbe dato il via al populismo antipartitico: come dire dopo un furto in casa che la colpa non è dei ladri ma di chi ha proposto di mettere una serratura migliore. I guai della Repubblica vengono proprio dalla dimenticanza di quel monito, sbeffeggiato per un decennio. I partiti al governo vennero presi con le mani nel sacco.

Il Pci andò alla sua propria liquidazione. Aveva vinto la linea opposta a quella dell’ultimo Berlinguer e, giustamente, Napolitano rivendicherà l’impronta della corrente riformista nel processo che si aprì con la metamorfosi del Pci in altro da sé. La parola d’ordine della svolta fu: “sbloccare il sistema politico”. Cioè neghiamo noi stessi per poter avere piena agibilità in un sistema politico che era marcio e stava crollando. Certo, c’era l’insofferenza per un nome che altri avevano sporcato. Ma il Pci fu sepolto sotto le macerie di un sistema che aveva criticato aspramente il Pci di Togliatti e aveva combattuto con ogni mezzo Berlinguer. Si rinunciava a criticare il modello capitalistico nella illusione che la sua vittoria planetaria (anche in Cina) segnasse il successo conclusivo di un sistema insuperabile: ma sopravvenne una crisi devastante.

Anneghiamo nelle merci, ma i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, persino durante la pandemia, che viene dalla devastazione degli ambienti naturali rimasti. Uno sviluppo infinito in un mondo finito è impossibile. Un sistema che crea ingiustizie selvagge è inumano. Le nuove generazioni provvederanno a ricostruire, quale che ne sarà il nome, le forme di organizzazione e di lotta per gli ideali che mossero tutti coloro che onestamente si batterono per la trasformazione di rapporti sociali sbagliati, per la libertà di ciascuno e di tutti.