Al suo secondo anno di tournée, continua a prendersi ogni sera il suo meritato carico di risate ed applausi L’impresario delle Smirne (stasera e domani ancora al Massimo di Cagliari, lunedì e martedì al Nuovo teatro comunale di Sassari). Uno spettacolo che conferma ancora una volta la centralità di Carlo Goldoni nella nostra storia teatrale, facendone anche l’oggetto di maggiore e fecondo saccheggio dei nostri artisti più avveduti (in questa sola stagione basta pensare, che siano piaciuti o meno, all’Arlecchino servitore di Antonio Latella e a quello di Pierfrancesco Favino, mentre si apprestano a ricomparire gli eterni Innamorati).
Ma Goldoni aveva la vista assai lunga, e oltre i trionfi e le miserie del palcoscenico, intuiva come nella «fattura» di uno spettacolo, fossero ben netti e pesanti vizietti, illusioni, vanità, e piccole porcherie di una intera società. E possedeva, il prolifico «avvocato» veneziano, anche la capacità diabolica di raccontarli con un soave senso dell’umorismo, spinto fino alla crudeltà più comica e disperante.
In questo caso la vicenda è quella classica della locanda veneziana dove coabitano (e incessantemente si spostano, arrivano e partono dalle loro camerette che è meglio non penetrare) attori, aspiranti tali, e qualche gradasso produttore. In particolare uno la cui fama è accresciuta dalla provenienza lontana: è addirittura turco, e progetta di metter su spettacoli nella favolosa Smirne, come da titolo. Con il progetto lucidissimo di raccogliere a quelle rappresentazioni un gran pubblico, ma non quello locale: piuttosto di stranieri che nella città lontana vivono per affari e per commerci, innanzitutto veneziani, of course, ma anche di altri stati italiani, e poi francesi, e poi spagnoli …
A tesser le trame, a metà tra un moderno agente e un casting, la nobiltà incerta del conte Lasca, classico faccendiere e motore di tanti intrecci goldoniani. Attori falliti, attrici dalle pretese superiori alle proprie arti sceniche, donne disinvolte e comiche disposte a offrire per una scrittura tutto il proprio calore. C’è perfino un tuttofare, sopra e sotto e anche fuori, rispetto alla scena.
È un intero universo quello cui il regista Roberto Valerio (che coerentemente si riserva la parte del truffaldino Lasca) dà vita su una bella scena tanto antirealista quanto efficace (firmata da Giorgio Gori): sul fondo rugginose pareti mobili che aprono e chiudono le stanzette di miseria e vanità; poi una serie di praticabili sfalsati su cui procede l’infaticabile viavai di arte, fame e immoralità, mentre le pareti laterali assemblano locandine di spettacoli (o film) che di quelle carriere, libertine senza costrutto, dovrebbero testimoniare la ricchezza. La formula è simile a quella che Valerio aveva usato due o tre anni fa per un altro bello spettacolo, Il Vantone (ovvero il plautino Miles gloriosus nella traduzione di Pasolini) con un minimo quanto accurato lavoro di adattamento, e la grinta di un gruppo di giovani attori che non si vogliono negare il divertimento (nel frattempo lo stesso regista ha ottenuto quest’anno il successo de Il giuoco delle parti creato sulla misura di Umberto Orsini).
C’è ancora qualcuno degli attori del Vantone qui, come il paradossale, a tratti irresistibile, Nicola Rignanese, proprio nel ruolo del titolo, borioso e prepotente come spesso rende la disponibilità del denaro, ma con una vena di amara consapevolezza che lo rende ancora più crudele oltre che ridicolo. Ma nessuno degli attori lesina pathos, agilità, gusto della battuta né debolezze per impersonare quei sogni impossibili di carriere fantascientifiche, poco realistiche neppure a Smirne, ultimo avamposto «civile» prima delle Asie e delle Cine. Ognuno, quasi a convalidare il passaggio goldoniano dalla commedia dell’arte al testo scritto, fa la mossa giusta, dal negligé allo strip tease, dalla birbonata all’ineccepibile virtuosismo del locandiere, che a differenza di Mirandolina, piuttosto che con «i lini di fiandra» eccelle nei giochi e nelle acrobazie di clavi e birilli.
A volercelo vedere, c’è in quei rondò goldoniani, come insegnarono Strehler e Visconti, ma soprattutto Cobelli (suo l’indimenticabile Impresario con turbante su tappeto persiano, fatto dalla star tv Alberto Lupo), c’è il teatro e quindi l’intera società di oggi. Questo bel gruppo di attori (tra gli altri Valentina Sperlì e Antonino Iuorio, ma sarebbero da nominare tutti) ci inocula un gusto sanguigno e sprezzante, quasi di generale consapevolezza di quanto quelle Smirne parlino di noi, e uno straripante piacere nella comicità. Il pubblico alla fine applaude contento e quasi sorpreso, perché magari non conosceva prima la compagnia o il testo poco rappresentato di Goldoni.