David Sheff è preoccupato, suo figlio Nic si droga, dipendenza dal crystal meth, anfetamina implacabile, ma anche eroina e cocaina, e alla domanda: «Perché?» la risposta è «Non lo so». Lui, David (Steve Carell) è un bravo padre, attento, sensibile, affettuoso, giornalista di professione cerca di comprendere, di aiutare. Anche Nic – Timothée Chalamet, «perfettino» persino in versione tossica – è un ragazzo a cui «non manca nulla», bello, colto, brillante. E allora cosa c’è che non va?

TRATTO dai libri autobiografici di David Shaff e di suo figlio Nic, dunque con l’etichetta della storia «vera», Beautiful Boy di Felix Van Groeningen – presentato alla scorsa Festa di Roma, sezione Alice nella città – si addentra nel complicato territorio (al cinema e in genere) della tossicodipendenza a partire dalla relazione padre-figlio, scegliendo come punto di vista del racconto quello del primo, disposto a tutto pur di capire cosa sta succedendo. La regia di Van Groeningen però come già nel precedente Alabama Monroe, non riesce a produrre una sintesi personale, distante dai luoghi comuni, e soprattutto dalla patina di sentimentalismo – a tratti fastidioso – che trova come unico referente l’interpretazione dei due attori, bravi ma senza mai sobbalzi di autenticità.

Tutto procede secondo i canoni, nei flashback che ripercorrono la vita del «meraviglioso ragazzo», alla ricerca di traumi e di possibili errori genitoriali nei ricordi scanditi dai successi musicali degli anni Novanta che accompagnano la trasformazione di Nic da fanciullo etereo a giovane rabbioso. I versi di Bukowski, un pezzo dei Nirvana, la prima canna, la faccia che cambia: Van Groeningen non risparmia nulla nemmeno la scena di sesso junkie sotto la doccia e il buco in vena con luce flou e effetto ralenti. Intanto quella relazione filiale che sembrava la «guida» si è persa tra gli effetti lacrimosi dei buoni sentimenti, proprio come il film.