L’edizione 2019 del New York Film Festival – l’ultima dell’attuale direttore Kent Jones – si è chiusa sabato sera, con la proiezione di Motherless Brooklyn, seconda regia di Ed Norton e una love letter alla città, che l’attore/ regista – qui anche autore della sceneggiatura – ha adattato dal romanzo omonimo di Jonathan Lethem (1999), trasportandolo però indietro nel tempo, agli anni ’50, e inserendovi una figura ispirata al potente urbanista Robert Moses. Motherless Brooklyn aprirà la Festa del Cinema di Roma il 17 ottobre.

MA «IL» FILM newyorkese più emozionante del festival ospitato dal Lincoln Center è stato un altro, improvvisamente annunciato in proiezione speciale quando la manifestazione era già in corso, Uncut Gems, di Josh e Benny Safdie. Bastano poche inquadrature di un film dei Safdie per immergerti completamente nella città – nella sua texture, nella sua energia compulsiva, nei suoi odori, nelle sue durezze, nelle sue iperboli e soprattutto nei suoi personaggi. Il Dna stesso dei loro film è l’antitesi alla Manhattan di Hudson Yards, alla Brooklyn sfibrata dagli hipsters, alla 5th Avenue colonizzata da asettici box store di lusso, a chi dice «mixologist» invece di «barista» -i Safdie entrano nell’anima della loro home town come la sonda che, all’inizio del film, ci trasporta nel colon di Adam Sandler.

È Howard, il loro protagonista, proprietario di una piccola gioielleria a pochi isolati dalla Trump Tower; un sognatore incallito, per cui l’unica scommessa persa è quella che non ha piazzato, e che – anche nel mondo fitto fitto dei commercianti d’oro e di pietre ebrei della Midtown – vive in un caotico moto perpetuo, con una marcia in più che gli permette di risollevarsi dopo ogni ostacolo; un po’ Road Runner e un po’ Rodney Dangerfield. «Howard is always on»- Howard non si ferma mai, riassumono i Safdie con ammirazione.

«UNCUT GEMS», è in realtà una storia che i due fratelli volevano raccontare da quando, nel 2009, hanno realizzato il loro secondo (parzialmente autobiografico) lungometraggio, Daddy Longlegs. «Quello era un film sulla memoria, in cui cercavamo di dare un’idea di chi fosse nostro padre e scoprire certe cose che ci aveva trasmesso», ha detto Josh durante un incontro con il pubblico alla Directors Guild. Parte delle storie di Safdie Sr. erano ambientate nel Diamond District, l’isolato della quarantasettesima strada, tra la quinta e la sesta avenue, che fa da sfondo a Uncut Gems: «Volevamo fare qualcosa su quel posto e su quei personaggi. La prima versione della sceneggiatura risale infatti ad allora. Ma non eravamo pronti per questo film».

È facendo ricerca per quella prima stesura che i Safdie hanno incontrato la giovane eroinomane protagonista di quello che sarebbe invece diventato il loro film successivo, Heaven Knows What, dalle cui immagini strappate alla città, a sua volta, è risultato Good Time. «Good Time ci ha insegnato come lavorare sul ritmo, sul genere. Per Uncut Gems abbiamo sempre voluto Sandler. Ma se lo avessimo fatto anni fa sarebbe stato un oggetto completamente diverso», ha detto ancora Josh. «Più nostalgico», gli fa eco Benny. «È che in ogni nuovo film impariamo qualcosa che poi incorporiamo in quello successivo».

IL RITMO frenetico ed esilarante di Good Time attraversa anche Uncut Gems. Ma l’ottovolante dei Safdie questa volta è molto più grosso. Scorsese («Indiewire» ha definito Gems un incrocio tra Mean Streets e Preston Sturges) presta il nome al loro nuovo film, che è realizzato sotto l’ala del produttore Scott Rudin (i Coen, Wes Anderson, Fincher, Baumbach..) e ha un budget che i fratelli non hanno nemmeno mai sfiorato, venti milioni di dollari.

Con cui -si vede- si sono divertiti moltissimo. A partire da un prologo africano che ricorda quello che Friedkin ha voluto per L’esorcista, dalle riprese in pellicola (con il direttore della fotografia di Spielberg) e dai set metropolitani pieni di inseguimenti e di comparse. È da una miniera etiope che parte la pietra preziosa (un sassone da cui fanno capolino dei meravigliosi opali grezzi) su cui Howard Ratner -barcamenandosi nel fuoco incrociato tra le ire dei criminali a cui deve dei soldi, quelli dei bookies che continuano a fargli credito e quelle di sua moglie – ha puntato il suo futuro.

LA SPERICOLATEZZA formale dei Safdie -Gems è un film ambiziosissimo, che sfiora il virtuosismo, anche nelle sequenze apparentemente più calme, come quella di un’ asta da Sotheby’s – malcelata dietro al caos dell’azione è pari a quella del loro casting, come al solito fatto di un mix di professionisti – insieme a Sandler (qui almeno all’altezza di Ubriaco d’amore e con un tocco di Zohan – Tutte le donne vengono al pettine), Judd Hirsh, Eric Bogosian, Idina Menzel- e non. E allora l’ex cestista dei Boston Celtics Kevin Garnett che interpreta una versione superstiziosa di sé stesso, la scoperta Julia Fox (è l’amante di Howard, la sua partner spirituale, ed è pazza come lui per le bistecche di Smith & Wollenski) e una manciata di non professionisti con facce così dure che te le sogni di notte.

«All’inizio non ero sicuro che stessimo parlando dello stesso personaggio. Howard è così senza scrupoli e loro lo amavano così tanto», ha detto Sandler, stupendamente imperturbabile anche quando esce nudo dal baule di una macchina. «Alla fine ho capito la sua umanità. Adoro i Safdie: ogni giorno, ogni dettaglio, ogni scena era importante. Ogni giorno bisognava andare a casa senza rimpianti». Quella voglia di non sprecare nemmeno un fotogramma una delle grandi gioie del film.