In un racconto diventato di culto tra i lettori di Michele Mari, intitolato «Otto scrittori», il narratore immagina un unico autore con otto grandi nomi, una specie di idra letteraria che racchiuda in sé l’essenza del romanzo di mare. Alcuni di quegli otto nomi sono gli stessi che compongono l’identità multipla e fantomatica dell’autore di Roderick Duddle (Einaudi, pp. 496, euro 22,00), quello che si nasconde dietro l’unico nome stampato in copertina: Melville, Poe, Conrad, Stevenson, a cui bisognerà aggiungere Dickens, che non è autore di mare ma almeno della prima parte di questo romanzo è la principale matrice.

La storia è quella di un novello Oliver Twist inconsapevolmente latore di una ricca eredità, con tanto di medaglione a garanzia del lascito, il quale viene risucchiato in un vortice di complotti truci e dementi messi in atto da un discreto numero di adulti interessati ad approfittare di lui: avvocati, avanzi di galera, suore spietate, puttane e gestori di bordelli. La narrazione avanza intricata e incalzante fino alla fuga di Roderick su una goletta, tra marinai terribili e affascinanti, tempeste, ammutinamenti.

L’adesione ai temi, all’immaginario, alle strutture narrative, persino l’intonazione del narratore (ironico, sornione, prodigo di complici apostrofi al lettore secondo una linea più sterniana-diderottiana, in questo caso) è così precisa, così naturale, che i sottotesti passano rapidamente in secondo piano e quello che ci resta tra le mani è un oggetto paradossale, una sfida alla storia della letteratura che soltanto uno autore intriso fino al midollo dell’influsso dei suoi padri poteva affrontare con successo: un romanzo ottocentesco puro e semplice. Roderick Duddle sembra «vero», come sembrano veri i sogni, e come i sogni paiono emergere da un altrove che non ci appartiene, così questo romanzo sembra sfuggire alla paternità del suo autore legale, esempio concreto e un po’ mostruoso di borghesiana cancellazione di ogni origine nel labirinto della biblioteca universale. La perfomance è ancora più notevole se consideriamo che proviene da un scrittore che ha impresso il proprio inconfondibile marchio in ogni libro, facendo della sua cifra stilistica il cuore e il sangue della propria opera.

Tra i suoi lavori passati soltanto Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, geniale romanzetto pseudo-leopardiano recentemente riproposto da Cavallo di ferro, potrebbe ricordare il «passo a lato» che Mari ha compiuto scrivendo Roderick Duddle: ma dove c’era aperta finzione e gusto antiquario della falsificazione adesso c’è illusione, dove c’era imitazione ora c’è transfert: identificazione pressoché totale. Il manierismo e l’artificiosità iperletteraria hanno lasciato il posto a uno stile piano, preciso e pulito; il ritmo degli eventi, l’aggrovigliarsi degli intrighi, l’intromettersi del poliziesco, quindi del romanzo d’avventura, occupano per intero la mente del lettore privandolo del piacere «adulto» di allontanarsi dalla trama e accostarsi alla visione dell’autore. Impressionante la precisione dei dettagli: dove un romanziere americano avrebbe ingaggiato una squadra di documentalisti, Mari sembra lavorare per sola virtù di memoria letteraria (o quasi). La riscrittura, il citazionismo, la parodia sono giunte a un tale grado di perfezione formale da cambiare natura, da farsi natura; ogni traccia di secondo grado scompare e persino gli ammiccamenti (come le note del traduttore) non fanno che aumentare l’effetto di avere tra le mani un oggetto autentico.

Mari ha sempre ri-scritto, ha sempre esibito apertamente il «beneficio dell’influenza» come l’ha definito, ribaltando la formula di Bloom, in una bella intervista pubblicata di recente sul sito «Le parole e le cose». Ha inoltre costantemente ricamato sulla fascinazione bovaristica del bambino asociale che vive per procura la sua vita attraverso i libri: ora infine tutto ciò è realizzato, compiuto, il citazionismo è diventato lettera e quel bambino siamo noi, rapiti da una fantasia di altri tempi. C’era nostalgia e sofferenza in ogni pagina, in ogni romanzo e racconto di questo autore: la nostalgia di una scrittura postuma, rivolta al passato, condannata a vivere in una prigione di carta, e non era questo l’ultimo motivo della bellezza dei suoi libri. Adesso è come se le premesse della poetica di Mari, portate all’estremo, si fossero annullate: il prigioniero è diventato la sua prigione, è dunque libero, è fuori, nel mondo che sognava. Il dolore è scomparso, lo sostituisce una tregua, il piacere della fuga, il divertimento beato e ottuso del romanzo romanzesco come lo abbiamo ereditato dalla sua epoca più gloriosa. E pazienza se il mondo va a rotoli, meglio, anzi, se fuori piove, se gli elementi si scatenano mentre al sicuro, sul divano, possiamo felicemente abbandonarci al nostro vizio impunito.